Quanto pesa il voto cattolico

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Quanto pesa il voto cattolico

28 Marzo 2006

Qualche settimana fa cercavamo di mettere insieme uno scenario sulla battaglia per il voto cattolico.
Il quadro adesso è molto più chiaro e il timore che nella Cdl non sia
stata compresa l’importanza del tema ora è realtà. Ad eccezione del Manifesto per l’Occidente lanciato dal Presidente del Senato Marcello Pera,
infatti, il centrodestra si è mosso con ritardo e insufficienza.
Cercando di tenere tutto insieme senza avere una visione complessiva
del problema, il centrodestra ha lasciato al partito di Rutelli il
quasi-monopolio delle relazioni con la Chiesa. La lettera aperta ai cattolici inviata da Paola Binetti e Luigi Bobba
agli elettori è la dimostrazione chiara della strategia della
Margherita. Candidare una delle bandiere del referendum sulla
procreazione e il numero uno delle Acli è stata una mossa azzeccata.

Il centrodestra risponde dicendo che i Rutelli boys sono in
contraddizione con la propria coalizione, laicista e addirittura
anti-concordataria. Quest’affermazione lapalissiana non sposta di un
millimetro il problema. Quale? Quello di un blocco politico
liberal-conservatore incapace di coniugare la richiesta di identità e
tradizione dell’elettorato con il concetto di laicità. Forza Italia
avrebbe potuto essere il luogo ideale di sintesi, ma l’iniziativa di
Pera è stata accolta timidamente e in alcuni casi addirittura
ostacolata. Quella era – e resta – l’unica risposta possibile all’Opa
sul rapporto tra religione e politica lanciata dai Dl fin dalla sua
nascita, ma con un’accelerazione dalla campagna referendaria e la
storica astensione di Francesco Rutelli.

Sul finale della campagna elettorale qualcuno ha cominciato a
rendersi conto che al di là della propaganda (insufficiente) sui Pacs,
l’aborto, l’eutanasia, la ricerca scientifica e la politica
dell’Unione, proprio la Margherita costituisce un baluardo per la
Chiesa e quei cattolici che non vogliono votare il centrodestra, ma non
si sentono di sposare la sinistra. Così la Margherita è oggi il più
dinamico partito di centro: messi all’angolo alcuni vecchi arnesi e
ridotti a miti consigli i prodiani, la formazione di Rutelli si
presenta agli elettori come un movimento politico laico, moderno e
attento alla tradizione. I “ruiniani” al suo interno hanno ricevuto
subito visibilità e libertà d’azione. Con l’abile regia di Beppe
Fioroni hanno puntellato le loro posizioni, alzato i cavalli di frisia,
issato le insegne dell’identità. Hanno goduto dell’appoggio del leader
e costruito subito una posizione riconoscibile e forte all’interno
dell’Unione delle contraddizioni. Posizione difficilmente scalabile da
altre realtà e a cui i Ds devono inchinarsi in nome della realpolitik.
La Quercia, infatti, ha esaurito quella corrente che al suo interno (da
Rodano in poi) aveva assicurato un rapporto con la Chiesa. Scavalcato a
sinistra dalla Rosa nel Pugno e a destra dalla Margherita, il partito
di Fassino si trova nell’imbarazzante posizione di chi non ha una
strategia ma solo la tattica e una macchina organizzativa che avrà il
compito di arginare nell’urna la velocità della Margherita di cogliere
i cambiamenti del mondo contemporaneo.

La stessa operazione non poteva riuscire all’Udc di Pier Ferdinando
Casini (che in realtà si è speso molto e da politico consumato qual è
ha fiutato il pericolo Margherita), troppo ancorata alla logica di
scambio postdemocristiana, con una classe dirigente sospesa tra il
movimentismo di Follini (uno che ha cervello e lo si vedrà dopo le
elezioni) e la pratica quotidiana della mediazione scudocrociata e
soprattutto senza la forza d’urto necessaria (il 5,9% delle ultime
elezioni europee) per cambiare le sorti della guerra elettorale.

Una partita del genere sarebbe stata invece alla portata di un
movimento d’opinione come Forza Italia: un contenitore agile, senza
grandi problemi di nomenklatura (almeno nella fase della decisione
finale), in cui i laici e i cattolici avrebbero costruito una nuova
formula del rapporto tra religione e politica. Invece proprio le
spicciole questioni di nomenklatura hanno preso il sopravvento sul
ragionamento politico e quando si sono fatte le liste e varata la
campagna elettorale, la battaglia per il voto cattolico è rimasta di
fatto ai margini, come se l’Italia non fosse la sede del Papato e il
Belpaese fosse scristianizzato da tempo. Inutile farci dei grandi giri
di parole: si è persa un’occasione d’oro e pensare di recuperarla nella
prossima legislatura francamente sa di utopia.

La stessa operazione poteva essere nelle corde di un partito come
Alleanza nazionale, ma Fini ha peccato di laicismo: volendo giustamente
interpretare una destra moderna, nè troppo ancorata al passato nè
tecnocratica, il leader ha finito per fare un passo in più del
necessario e ha spostato il baricentro della sua politica su posizioni
spesso incomprensibili per la sua base elettorale.

Diverso il discorso per la Lega: Bossi ha sempre detto che il suo
partito fin dalle origini nasce da motivazioni socioeconomiche e nella
Cdl è quello che senza dubbio ha maggiore identità e coerenza. Dopo le
polemiche sui “vescovoni”, oggi è sulla linea ratzingeriana. Può far
arricciare il naso ai puristi della politica, ma il Carroccio ha chiara
la strada da percorrere. Non ha ancora una classe dirigente capace di
elevare le sue intuizioni a programma politico di alto profilo ed è
stato questo il problema – e lo sarà ancora in futuro – della Lega
durante tutta la legislatura. E’ un partito che rappresenta un pezzo
importante di elettorato, ma non ha una proposta politica globale. E’
un frammento del mosaico.

Mosaico da cui però non emerge una figura compiuta. Il centrodestra
poteva senza grandi sforzi – proprio sul tema della religione e della
politica, dell’identità e della tradizione – costruire una cornice
leggera e disegnare un quadro coerente. Non si trattava di cedere al
clericalismo o di fare un passo indietro sull’autonomia dello Stato
(queste sono pure sciocchezze), ma di fare tesoro di alcuni importanti
eventi che si sono verificati nella società italiana.

Il papato di Benedetto XVI è diverso da quello di Giovanni Paolo II
non per differenza teologica, ma perchè la sfida a cui oggi è chiamata
la Chiesa è quella della sua stessa sopravvivenza nella società
occidentale. A dispetto però di quel che si pensava, qualcosa è
cambiato, le società secolarizzate e relativizzate riescono ancora a
dare segni di vitalità inaspettata: l’onda lunga delle elezioni
americane (dove per Bush è stata determinante il dibattito sui valori)
si è sentita anche nel Vecchio Continente. Scatenata dalla crisi della
crescita demografica (e dalla conseguente immigrazione),
dall’inquietudine per una pervasiva insicurezza (del posto di
lavoro/globalizzazione; della persona/terrorismo; della
famiglia/matrimoni gay; dell’Essere/manipolazione genetica) quest’onda
è giunta fino a noi in forme clamorose. Dei veri e propri gong: prima
con l’astensione sul referendum per la procreazione assistita, poi con
il crescente consenso al messaggio proprio della Chiesa, infine con un
acceso dibattito sull’identità che supera di gran lunga per importanza
e attenzione qualsiasi altro tema sul tavolo elettorale.

La politica finora riesce a cogliere soltanto la schiuma di questa ondata.

Si tratta di movimenti tettonici che alcuni studiosi della società
contemporanea stanno osservando con grande attenzione. Di libri
importanti in Italia ne sono usciti pochi, ma fondamentale è certamente
quello di Gaetano Quagliariello pubblicato per Mondadori e intitolato “Cattolici, pacifisti e teocon”.
E’ il frutto di un lungo lavoro accademico (e politico), un pezzo
importante di un puzzle sull’identità e la tradizione che si sta
componendo anche nel nostro Paese, nonostante il muro di gomma eretto
dalle baronie universitarie e la scarsa qualità della proposta
politica. All’estero gli studi fioccano e la rinascita del sentimento
religioso e della tradizione sono tra i punti più importanti della
ricerca filosofica e politica. Qualche giorno fa, Christopher Levenick,
studioso dell’American Enterprise Institute, ha scritto un articolo davvero straordinario per il Weekly Standard
dove, prendendo in esame l’aumento di vocazioni nei monasteri italiani,
il magistero di Papa Ratzinger e la sua devozione per San Benedetto da
Norcia (un monaco, guardacaso) e le analisi dello storico Edward Gibbon
sulla caduta dell’impero romano e le fasi di ascesa e declino delle
vocazioni monastiche, si suggerisce che stiamo per assistere “a un
possibile rinascimento monastico”. “Questa è certamente la visione di
Benedetto XVI che vede nel monachesimo uno dei tre storici elementi che
hanno forgiato le culture dei Latini, dei Greci, degli Slavi, degli
Scandinavi e dei Germani per poi amalgamarle nell’Europa”. Secondo il
Papa, infatti, il monachesimo si dispiega nella società come “portatore
non solamente della continuità culturale, bensì soprattutto dei
fondamentali valori religiosi e morali, degli orientamenti ultimi
dell’uomo, e in quanto forza pre-politica e sovra-politica divenne
portatore delle sempre nuovamente necessarie rinascite”.

Levenick traccia una mappa dei segnali del rinascimento religioso e
della reazione alla secolarizzazione: la partecipazione dei fedeli alle
messe che dal 1980 al 2000 – secondo i dati della Georgetown University
– è aumentata anzichè diminuire (come vorrebbe la teoria del declino
infinito); 500 nuove vocazioni tra le donne che hanno scelto la
clausura a Roma, mentre due anni fa erano 350; l’ordinazione dopo 200
anni di alcuni monaci nella Basilica di San Benedetto da Norcia. A
questi picchi del sismografo, vere e proprie fasi “pre-politiche”, si
potrebbero aggiungere molti altri elementi.

Quando c’è tumulto e confusione – è la tesi di Levenick – il
monachesimo prospera e il sentimento religioso rinasce. Cosa c’entra
tutto questa con la politica? Questa è la domanda che si pone chi non
capisce il mondo contemporaneo, chi vive nel tumulto e nella confusione
e si lascia trasportare dalla corrente informe.
Tumulto e confusione di un’Europa in cui l’epicentro della crisi sembra
in questo momento essere la Francia, ma le cui onde d’urto continuano
ad arrivare anche negli altri Paesi. Tumulto e confusione che nel
piccolo piccolo dibattito politico italiano non trovano spazio. Tumulto
e confusione che sono là, di fronte a noi, testimonianza
dell’incapacità della politica di rispondere alla sfida del presente
che è già quella del futuro.

Per questo sarebbe stata importante una proposta unitaria del
centrodestra a questa richiesta che viene dal basso. In una campagna
elettorale dalle formule generiche e priva di colpi d’ala e idee
vincenti, si è lasciato al solo Marcello Pera il compito di portare la
croce (e gli articoli dell’International Herald Tribune e di El Pais
sono là a futura memoria), dove invece serviva un abile gioco di
squadra, una serie di candidature forti e rappresentative per
contrastare quelle della Binetti e di Bobba e non solo, un’azione
corale che avrebbe messo a nudo tutte le contraddizioni del
centrosinistra e impedito alla Margherita di accedere alla corsia
preferenziale della Chiesa e far sventolare la bandiera della laicità
che si sposa al rinascimento religioso.

%0A

Dopo il 9 aprile si tireranno le somme e non parliamo solo di quelle aritmetiche dell’urna.

I voti si contano, ma le idee si pesano e nel lungo termine sono
queste ultime a fare la differenza e a dare al cittadino una visione
del mondo a cui per ora ci sembra che sappia rispondere soltanto una
forza “pre-politica e sovra-politica”.

Stiamo ancora aspettando la politica.