Quei 50 anni di Repubblica francese che tanto insegnano anche all’Italia
17 Agosto 2009
Sono due libri profondamente diversi quelli che Sergio Romano e Umberto Coldagelli hanno dedicato alla Francia contemporanea, eppure entrambi consigliabili, perché ben scritti e ricchi di spunti di riflessione anche quando, e questo è il caso soprattutto di quello di Coldagelli, sostengono tesi forti ed esprimono giudizi che la più recente storiografia e pubblicistica politologica non esita a contestare.
La prima differenza è metodologica. Romano ripropone il suo fortunato "La Francia dal 1870 ai giorni nostri", pubblicato nel 1981 per Mondadori, arricchendolo di due capitoli conclusivi completamente inediti e dedicati alle presidenze Mitterrand e Chirac, più qualche sommario accenno all’avvio dei cinque anni all’Eliseo di Sarkozy. Coldagelli invece, uno degli studiosi italiani più conosciuti dell’opera di Tocqueville, presenta al lettore un colto pamphlet politico-istituzionale sulla Quinta Repubblica, in particolare concentrandosi sulla sua evoluzione (o mancata tale secondo l’autore) di tipo costituzionale. Dunque nel caso di Romano siamo di fronte ad un classico affresco storico di stile quasi anglosassone, arricchito dalle riflessioni e dai commenti di un grande conoscitore della Francia, della sua vita politica almeno quanto di quella intellettuale e sociale. Coldagelli, al contrario, dedica poco spazio alla storia fattuale e costruisce una raffinata critica al sistema istituzionale voluto da de Gaulle nel 1958 e a tutte le successive declinazioni che di esso hanno fornito i vari inquilini dell’Eliseo.
In questa differenza si può individuare uno degli elementi di maggiore interesse che emerge dalla lettura dei due volumi. Romano privilegia gli uomini, veri e propri protagonisti e “costruttori” delle istituzioni e così facendo individua continuità piuttosto che rotture nella storia francese dal 1870 ad oggi, nonostante i significativi e anche traumatici cambi di regime. E individua correttamente, come tratto distintivo e peculiare del Paese, la continua dialettica tra immobilismo (e si potrebbe azzardare conservatorismo) e volontarismo. Coldagelli si concentra sulle istituzioni e in particolare su quelle che nel 2008 hanno compiuto 50 anni di vita, quelle volute dal Generale de Gaulle sull’onda del putsch algerino, arricchite dall’elezione diretta del Presidente nel 1962 e definitivamente consolidate nel 1981 con la prima (e ad oggi unica) alternanza. Difficile non considerare il pamphlet di Coldagelli un libro a tesi, costruito per mostrare come il sistema istituzionale semipresidenziale (che in realtà egli considera un presidenzialismo senza la corretta separazione dei poteri) oscilli tra l’onnipotenza e l’irresponsabilità dell’inquilino dell’Eliseo.
In realtà il ragionamento di Coldagelli è ancora più sottile. Egli individua nella lettura “golliana” (forse sarebbe meglio dire gollista?) della Costituzione del 1958 il vero vulnus della sua evoluzione. È certamente corretto affermare che secondo un’interpretazione formale (e in particolare in base all’articolo 20) è il governo (e in particolare il Primo ministro) a dirigere la politica del Paese. De Gaulle però, sin dal gennaio 1959, ha “materialmente” mostrato che in caso di coincidenza tra maggioranza parlamentare e maggioranza presidenziale è il titolare dell’Eliseo a guidare il Paese e al Primo ministro spetta l’ordinaria amministrazione. E non si tratta affatto di bonapartismo o di “appello al popolo”, come in alcuni passaggi Coldagelli lascia trasparire piuttosto esplicitamente, quanto di un sistema istituzionale appositamente creato per esaltare la dimensione carismatica della politica e la sua personalizzazione, peraltro in linea con un trend mondiale piuttosto comune a partire dalla seconda metà del secolo scorso. Ha dunque ragione Coldagelli quando sottolinea come tutti i Presidenti francesi, ognuno con le proprie peculiarità, abbiano cercato di contrastare la diarchia Presidente-Primo ministro, fino ad arrivare a renderla improbabile riducendo a cinque la durata del mandato presidenziale (prima era di sette anni) e invertendo l’ordine delle elezioni, oggi le presidenziali precedono l’elezione del Parlamento, determinando un quasi certo effetto trascinamento. Ebbene questo combinato di riforma istituzionale e di adattamento plastico delle istituzioni operato grazie al volontarismo dei vari leader politici transalpini è il dato che più dovrebbe essere sottolineato guardando agli oltre 50 anni di Quinta Repubblica. Non a caso la storiografia si sta muovendo su questo doppio binario come dimostrano gli studi innovativi coordinati dai professori Le Beguec, Lachaise all’Association Pompidou per quello che riguarda i rapporti tra de Gaulle e Georges Pompidou e l’interessante saggio di Riccardo Brizzi (Alle origini del semipresidenzialismo francese, «Contemporanea», 1/2009), per quello che riguarda la dialettica tra lo stesso Generale e il suo Primo ministro dal 1959 al 1962, cioè Michel Debré.
Dunque nonostante alcune critiche di Coldagelli forse un po’ frettolose, i due libri concordano su un punto decisivo: il combinato dell’“effetto presidenziale” e di quello “maggioritario” ha favorito la semplificazione del sistema politico, tanto che alcuni autorevoli politologi di Sciences Po sono arrivati a parlare di bipartitismo (G. Grunberg-F. Haegel, La France vers le bipartisme?, 2007). Non dimentichiamo che l’attuale Assemblea Nazionale è composta soltanto da quattro gruppi, due dei quali (quello del Nouveau Centre e quello della Gauche démocrate et républicaine) contano insieme solo 46 deputati, contro i 493 della somma dei due partiti maggiori (Ump e Ps). Insomma un passo ulteriore rispetto all’oramai datata “quadriglia bipolare” teorizzata da Duverger negli anni Settanta e qualcosa di molto simile a quella République du centre teorizzata da Julliard, Furet e Rosanvallon a metà degli anni Ottanta. Non da intendersi come “evoluzione centrista” del Paese, quanto come necessità da parte dei due partiti maggioritari (neo-gollisti o socialisti) di governare il Paese “dal centro”, assorbendo al proprio interno quelle pulsioni radicali (per non dire rivoluzionarie) così caratteristiche del Paese.
Descrivere una sorta di Francia “pacificata” non significa trascurare le carenze mostrate dalla Quinta Repubblica anche in anni recenti (alto astensionismo, crisi sociale e rigetto della politica). Da questo punto di vista però le elezioni presidenziali del 2007, l’alto tasso di partecipazione e la successiva interessante riforma istituzionale portata a termine da Sarkozy nel luglio del 2008 sono il preludio per un futuro interessante per la Francia della Quinta Repubblica, magari verso un’evoluzione meno semi e più presidenziale.
Attualmente la vera emergenza sembra essere quella dell’assenza di un’alternativa a sinistra considerata la situazione preoccupante nella quale versa il Partito socialista, lacerato al suo interno da una faida tra notabili di partito che si trascina perlomeno dalla sconfitta di Jospin al primo turno delle presidenziali del 2002. Il Ps, come confermato dal referendum europeo del 2005 e dalle recenti elezioni per l’Europarlamento, è sempre più distante dal suo elettorato e persino dai suoi pochi militanti ed iscritti.
Anche da questo punto di vista i libri di Romano e Coldagelli, con i loro giudizi piuttosto critici su Mitterrand, aiutano ad indagare le ragioni di lungo periodo di una crisi che mescola alla carenza di leadership una vera e propria mancata operazione di elaborazione di una coerente cultura politica. La lunga marcia verso la conquista del potere è condotta da Mitterrand sin dal maggio ’68 quando comprende la necessità di creare un nuovo soggetto che si ponga a metà strada tra l’eredità dell’oramai superata Sfio di Mollet e quella del declinante comunismo filo-sovietico. A Epinay nel 1971 nasce il Ps mitterrandiano che, nonostante alcune battaglie culturali interne (su tutte quella della deuxième gauche di Rocard), finisce per tramutarsi in mero mezzo per la conquista dell’Eliseo, macchina di potere non in grado di generare cultura politica. Royal, Fabius, Aubry e Hollande non sono altro che i frutti di un progetto senza respiro politico, tutto volto alla sola conquista del potere e alla sua gestione, sfruttando le indubbie doti di realismo politico di Mitterrand.
Insomma, smaltita la “sbornia” elettorale del 2007 e quella successiva alimentata dal gossip politico del feuilleton Cecilia-Carla-presidenza bling bling, i libri di Romano e Coldagelli invitano a riflettere in maniera seria sul “modello” politico-istituzionale dei cugini d’Oltralpe. Senza innamoramenti eccessivi (come quelli di una parte dei Ds e di An negli anni Novanta) ma certamente con un pizzico di invidia per un sistema che garantisce governabilità e alternanza da oltre un cinquantennio.
S. Romano, Storia di Francia. Dalla Comune a Sarkozy, Longanesi, 2009, pp. 302.
U. Coldagelli, La Quinta Repubblica, Donzelli, 2009, pp. 184.