Quel Brasile che non ti aspetti. Ecologico, evangelico e antiabortista

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Quel Brasile che non ti aspetti. Ecologico, evangelico e antiabortista

04 Ottobre 2010

Dal 2008 a maggio il prossimo presidente del Brasile, stando ai sondaggi, era José Serra. Tra maggio e agosto Dilma Rousseff ha preso il volo. E da agosto avrebbe vinto Dilma Rousseff al primo turno. Che è successo che ha prima distrutto le ambizioni del candidato del centro-destra, e poi ha costretto la delfina ufficiale di Lula a rinviare i festeggiamenti per la vittoria a fine mese?

Primo fattore: l’immensa popolarità di Lula, al 75-80%, per un Paese che effettivamente con lui è cresciuto in maniera vorticosa, ha acquisito visibilità internazionale ed ha anche ridotto fortemente le diseguaglianze sociali, anche se rimangono gravi problemi di delinquenza diffusa e di corruzione dei politici. Ma una popolarità che sembrava impossibilitata a trovare eredi, una volta spirato il massimo dei due mandati presidenziali costituzionalmente consentiti. Così, José Serra si è messo a fare una campagna elettorale non da candidato, ma da statista. Un po’ come se fosse già Presidente, tenuto alla magnanimità verso il suo predecessore. Un po’ nell’idea che, acquisito già il voto anti-lulista, il modo migliore per attrarre quello già lulista che si supponeva in libera uscita fosse quello di blandirlo. Solo che poi con Dilma Rousseff un candidato lulista è saltato fuori, e Serra ha impiegato troppo tempo a riposizionarsi. Unicamente nelle ultime settimane, infatti, ha portato un affondo sulla questione morale che effettivamente ha contribuito a far perdere alla rivale alcuni dei voti decisivi per arrivare al ballottaggio: anche perché accompagnato da una poderosa campagna di stampa che ha fatto perdere a Lula le staffe; e da uno scandalo che ha obbligato alle dimissioni Erenice Alves Guerra, che dopo le dimissioni di Dilma del 31 marzo per potersi candidare aveva preso il suo posto come ministro della Casa Civile. Ma presumibilmente è ormai troppo tardi per poter vincere.

Secondo fattore: il modo pesante in cui Lula come presidente ha interferito nella campagna per promuovere Dilma Rousseff, infischiandosene delle multe a valanga che il Tribunale Supremo Federale ha loro appioppato per violazione delle leggi elettorali. Ben sedici! Tanto, ha fatto capire, poiché è possibile fare ricorso, alla fine se pagate verranno pagate con Dilma già insediata, e allora potrebbero pure essere considerate un buon investimento. Il bello è che alcuni anni fa, invitato da Chávez a fare un comizio assieme a lui, di ritorno in Brasile Lula aveva confidato al suo entourage: “se io usassi metodi del genere, il Tribunale Supremo Federale mi leverebbe la pelle”. Evidentemente, da allora ha cambiato idea.

Ma, a questo punto, terzo fattore:  la mobilitazione dei protestanti a favore di Marina Silva; che non è solo una Verde ex-compagna di lotta di Chico Mendes e ex-ministro dell’Ambiente di Lula messasi contro di lui per la decisione di costruire una nuova immensa diga in Amazzonia; ma anche una pentecostale che si è pronunciata in modo impegnativo su certi temi cari al mondo evangelico, e anche cattolico. In particolare, l’aborto. Va ricordato: il Brasile è uno dei Paesi cattolici dove la presenza protestante si sta accrescendo di più. Nel 2000 il 74% della popolazione era cattolica e il 15% protestante; adesso i cattolici sono scesi al 60% e i protestanti sono saliti al 25. Ma per frequenza alle messe i protestanti hanno addirittura sorpassato i cattolici. È un fenomeno curiosamente speculare a quello che ha visto invece l’avanzata cattolica in Paesi di tradizione protestante contro gli Stati Uniti e il Regno Unito, e in quest’ultimo caso sono stati invece i cattolici a sorpassare i protestanti come frequenza religiosa. Riprova presumibile del fatto che la globalizzazione non favorisce in realtà una fede piuttosto che l’altra, ma permette un’osmosi in cui chi è abituato alle posizioni acquisite deve imparare a rimettersi in discussione.

Nel 2002 e 2006, va ricordato, Lula aveva candidato a Vice José Alençar: industriale tessile e esponente di un Partito Liberale fortemente collegato a una chiesa pentecostale. Ma stavolta è probabile che abbia sottovalutato il problema. In questo modo, i protestanti hanno ricordato che possono essere loro gli aghi della bilancia. E poi c’è stata la questione morale. Fin quasi alle ultime battute, questa campagna elettorale era stata la storia di come Dilma Rousseff era riuscita a recuperare una situazione che sembrava irrecuperabile, e il candidato del centro-destra José Serra aveva invece buttato via una vittoria che sembrava ormai in tasca.

Il 3 ottobre 2008, data del primo sondaggio, Serra stava infatti al 38%, e Dilma al 3. Il 28 novembre del 2008 Serra era al 41 e Dilma all’8. Il 19 marzo 2009, quando Dilma passa le due cifre e arriva a 11, Serra è al ancora al 41. Il 20 novembre 2009, quando per la prima volta un sondaggio dà Dilma oltre la barriera del 20, al 23,5, Serra è al 40,5. Una data che fa da spartiacque è il primo gennaio del 2010, quando viene presentato il film sulla vita di Lula che è il più costoso della storia del Brasile e che sarà poi selezionato per l’Oscar, con Dilma fianco a fianco del presidente. Già in effetti come ministro della Casa Civile è il suo braccio destro, ma la cosa è vista come un’investitura ufficiosa a “delfina”, e il 25 febbraio 2010 oltrepassa la barriera del 30%, al 31: Serra è ormai a portata di mano, al 38%. Ma il 16 aprile la forbice si è di nuovo allargata: Serra 40%; Dilma 29.

È solo il 13 maggio che un sondaggio dà per la prima volta Dilma in testa su Serra: 38 contro 35. Il testa a testa va avanti significativamente per tutto maggio, ma il 13 giugno finalmente il Partito dei Lavoratori ufficializza la sua candidatura, fino a quel momento ancora solo de facto. E allora Dilma prende il volo. Il 18 giugno è 38,2 contro 32,3. Il 24 giugno è 40 contro 35. Il 30 giugno due sondaggi danno Serra in ripresa, con un pareggio attorno al 38-39%. Ma il 20 luglio Dilma è di nuovo in testa 41 a 33. Il 31 luglio è 41,6 a 31,6. Il 10 agosto è 45 a 29. Il 20 agosto è 47 a 30. Il 24 agosto 49 a 29. Dal 26 agosto Dilma arriva al 51% che le permetterebbe di vincere al primo turno. Il 3 settembre è al 52%, il 4 al 53, il 6 al 55, il 7 al 56.

È a quel punto che  José Serra alza i toni della campagna, appoggiato da una grande stampa che torna ad agitare la questione morale. In particolare nell’occhio del ciclone finisce Erenice Alves Guerra, che dopo le dimissioni di Dilma del 31 marzo per potersi candidare ha preso il suo posto alla Casa Civile, e che per la verità già nel 2008 era finita in mezzo a uno scandalo di dossier contro politici dell’opposizione. La rivista Veja accusa infatti il figlio di Erenice di prendere mazzette del 6% per facilitare affari con il governo e due suoi fratelli di aver arrangiato un contratto di consulenza giuridica per un ente pubblico senza licitazione. La ministro risponde in modo pesantemente irrituale con carta intestata della Casa Civile, peggiorando così le cose. E  il 16 settembre è così costretta alle dimissioni. In effetti l’8 settembre Dilma è calata al 54%; il 9 al 53; l’11 al 52; il 15 al 51; il 22 al 49; e il 27 al 46% delle intenzioni di voto, anche se un ultimissimo sondaggio del 28 settembre la dà al 49%, con Serra al 25%.

Come aveva fatto Dilma a rovesciare la situazione in questo modo? In effetti, Lula sta lasciando la carica con livelli di popolarità del 75-80%. Se si guarda alle sigle che sponsorizzano la candidatura di Dilma si va dal Partito dei Lavoratori fino al centrista Partito del Movimento Democratico Brasiliano (Pmdb) del candidato alla vicepresidenza Michel Temer, passando per il Partito Comunista, quello Socialista, quelli Democratico Laburista e Laburista Nazionale degli eredi del “Perón brasiliano” Getúlio Vargas, i liberali Partito della Repubblica e Repubblicano, e i due partiti “cristiani “ Sociale e Laburista: ma i governi lulisti sono stati appoggiati anche dal Partito Progressista degli ex-sostenitori del regime militare. Insomma, anche l’arco partitico di riferimento arriva a percentuali sul 75-80% dei voti.

L’anomalia, dunque, riguardava piuttosto il perché tale popolarità non si trasferisse automaticamente alla candidata. E ciò veniva spiegato con vari fattori. Il ritardo nell’ufficializzazione della candidatura, innanzitutto. Ma anche lo scarso charme di Dilma: una tecnocrate senza alcuna esperienza elettorale, con il significativo soprannome di “Dama di Ferro”. D’altra parte, proprio la combinazione tra popolarità di Lula e alta intenzione di voto a suo favore aveva indotto Serra a una campagna elettorale di basso profilo, in cui presentava sé stesso come vero erede del pragmatismo del Presidente in carica. Insomma, una linea più da eletto che da candidato. A partire dalla contestata presentazione del film-spot su di lui, il più costoso della storia del Brasile, Lula per tutto il 2010 ha però iniziato a invadere pesantemente il campo della propaganda elettorale, fino al punto da ricevere sei multe del Tribunale Supremo Federale per violazione delle leggi elettorali: e altre dieci sono arrivate a Dilma.

Ma Lula se ne è infischiato, contando sul fatto che con i ricorsi presentati le pagherà solo a risultato già acquisito, e  a quel punto si rivelerebbero un buon investimento. D’altra parte anche Serra ha ricevuto sette multe, a riprova che il malcostume non è solo da una parte. Fondamentale sembra essere però stata la faticosissima ma efficace ridefinizione della propria immagine in cui Dilma si è impegnata. Ha iniziato a gennaio un chirurgo plastico a rifarle palpebre e faccia, per farle apparire 10 anni di meno.  Poi è andata da un famoso parrucchiere di modelle e dive, che l’hanno pettinata verso l’alto e le hanno cambiato la tinta dei capelli in rosso. In seguito la stessa moglie di Lula le ha prestato la sua estetista. E poiché era stato lo stesso Presidente a spiegarle che dopo aver perso tre elezioni era stato infine eletto quando aveva deciso di tagliarsi la barba, calare di peso e mettersi la cravatta, alla fine le ha prestato anche un consulente politico che le ha fatto sostituire gli occhiali con lenti a contatto e i vestiti monocromatici con tailleur multicolori. Ne è mancato un vero e proprio corso di dizione e comunicazione con una famosa giornalista.

Ciò che l’immagine aveva fatto, gli scandali hanno in parte disfatto all’ultimo momento. Ad avvantaggiarsene non è stato però tanto Serra, visto che il centro-destra in Brasile ha tutt’altro che un’immagine immacolata, ma l’integerrima Marina Silva. Aggiungendo un quarto, decisivo segmento di voto a quelli ecologista, di estrema sinistra e evangelico-antiabortista già acquisiti. Certo, è un elettorato trasversale che ci vuole un notevole virtuosismo a tenere in piedi. E ancora di più per far pesare al secondo turno, come Marina Silva aveva preannunciato negli ultimi giorni prima del voto, nell’annunciare che sarebbe stata lei la sorpresa. Sebbene la gran parte dei commentatori stranieri considera naturale che il suo elettorato al ballottaggio rifluisca sulla Rousseff, in realtà Marina Silva ha fatto capire che José Serra non è affatto fuori dai giochi.  

Comunque, permettendogli di arrivare al ballottaggio gli ha già fatto un grosso favore. Figlio di un fruttivendolo calabrese, madre argentina pure di origine italiana, José Serra fu negli anni ’60 un leader studentesco che per l’opposizione al regime militare dovette andare in esilio, da cui la sua moglie cilena, e anche un Master alla Cornell University. Segretario all’Economia e Pianificazione dello Stato di San Paolo, deputato, tra i fondatori nel 1988 del centrista Partito della Socialdemocrazia Brasiliana (Psdb),  senatore, Serra fu nei governi di Cardoso ministro prima della Pianificazione e poi della Sanità, e soprattutto in quest’ultimo incarico ottenne una vasta popolarità. Ma fu sconfitto da Lula alle presidenziali del 2002, col 23,2% al primo turno e il 38,7% al ballottaggio. Eclissato per un po’ dalla sconfitta, al punto che nel 2006 il Pdsb preferì selezionare come candidato anti-Lula Geraldo Alckmin, Serra tornò alla ribalta diventando tra 2005 e 2006 sindaco di San Paolo, e poi tra il 2007 e lo scorso 31 marzo, anche lui ha dovuto dimettersi per candidarsi a presidente, governatore dello Stato di San Paolo. Una sconfitta al primo turno, secondo i più, avrebbe significato la fine della sua carriera politica.