Quel mondo di oggetti, abitudini, lavoro, memorie che non c’è più
07 Aprile 2009
Insegno da molti anni all’Università dell’Aquila pur abitando a Firenze. Quest’anno sono in congedo per motivi di studio, e posso permettermi di non fare la pendolare. E’ questo l’unico motivo per cui non sono coinvolta nel terremoto che ha colpito la città.
Per raggiungere L’Aquila in tempo per le lezioni del lunedì mattina, ero solita infatti partire di domenica nel tardo pomeriggio e dormire lì, nel centro storico che ora è pieno di macerie. Al posto dell’albergo dove in genere si recano i professori fuorisede c’è un enorme cumulo di detriti.
Ho passato la mattinata di ieri a rintracciare i colleghi e le colleghe, e man mano che le telefonate si susseguivano e che mettevo le notizie ricevute in diretta accanto alle immagini trasmesse dalla televisione e da internet, il quadro del disastro si precisava e si faceva più grave. Coloro con cui sono riuscita a parlare raccontano di aver sentito la prima forte scossa alle 23 di domenica, di essere andati a letto vestiti per poter scappare in strada più in fretta, di essere stati svegliati alle 3.30 dal boato e dal terreno che si scuoteva, dalle mura di casa e dal soffitto che crollavano sulle loro teste. Si sono nascosti sotto lo stipite della porta. L’Aquila è una zona sismica: nonni e genitori hanno insegnato loro che in caso di scosse l’unico posto sicuro della casa è sotto lo stipite. Da lì, mentre la polvere saliva, hanno assistito al finimondo: il pavimento che si sollevava, oggetti e mobili che venivano scaraventati in mezzo alla stanza, le mura che si sbriciolavano, e loro stessi che erano scossi violentemente, senza più un punto saldo a cui attaccarsi.
Quando hanno aperto la porta, si è presentato loro uno spettacolo agghiacciante: una grande nuvola si sollevava sopra la città, formata dalla polvere, dalle briciole di quelle che erano state fino a un attimo prima chiese, scuole, case, di tutto ciò che il terremoto ha colpito.
I soccorsi – raccontano – sono arrivati con grande ritardo perché le chiamate erano centinaia e probabilmente il panico notevole in chi era rimsato in casa e in chi era riuscito a raggiungere la strada.
Di mattina li hanno raccolti al Campo sportivo e iniziato a trasportarli verso i centri di raccolta. Quando io li ho sentiti, quando ci ho parlato per telefono, non erano neppure spaventati, ma piuttosto attoniti, senza parole, incerti se essere grati per lo scampato pericolo o disperati per la perdita subita: erano lì, in attesa di sapere dove avrebbero dormito i prossimi giorni, senza vestiti di ricambio, senza le proprie cose, con la casa distrutta o comunque inagibile.
Suona paradossale che persone che sono vive per miracolo, che sono scampate a un disatro di grandi dimensioni che colpisce una delle più belle città d’Italia, persone che hanno perso sotto le macerie il gatto, i libri, il lavoro raccolto per anni nel computer e tutti i loro ricordi, rispondano normalmente al cellulare: una delle preoccupazioni maggiori che ho sentito in loro era il fatto che il cellulare si stava scaricando. Il fatto è che proprio il cellulare, in questa occasione, ha salvato alcune vite permettendo ai soccorritori di raggiungere i feriti sepolti dai detriti, permettendo a coloro che erano bloccati di chiedere aiuto, di scambiare notizie con i propri cari, di rassicurarsi a vicenda.
In questi casi la prima domanda che sorge spontanea è se la tragedia si potesse prevedere oppure no. Ho già detto che L’Aquila è una zona sismica. Da gennaio erano state avvertite scosse anche molto forti. Sappiamo già che di tutto questo si discuterà a lungo, che ci si accapiglierà quasi certamente.
Per ora la sensazione più forte è quella dell’ala fredda della morte che ci è passata accanto, che ci ha sfiorato e ha colpito persone a noi vicine, che ha distrutto delle vite, un mondo di ricordi, lavoro, abitudini, memorie.