Quel pasticcio senza fine del duo Rajoy-Ue sulla Catalogna

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Quel pasticcio senza fine del duo Rajoy-Ue sulla Catalogna

Quel pasticcio senza fine del duo Rajoy-Ue sulla Catalogna

26 Marzo 2018

L’Europa! L’Europa! “El presidente del Parlament de Cataluña, Roger Torrent, ha suspendido la sesión de investidura a la que debía someterse Jordi Turull y la ha reconvertido en un pleno para abordar la situación de ‘excepcionalidad’ política tras el ingreso en prisión del candidato y de otros cuatro líderes independentistas. ‘El Estado está impidiendo que se refleje la soberanía expresada libremente en las urnas’, ha afirmado Torrent”. Àngels Piñol, su El Pais del 24 marzo, spiega i pasticci che sta continuando a combinare Mariano Rajoy sulla Catalogna, lasciando che sia arrestato quello che era il candidato degli indipendentisti alla presidenza della Generalitat, minacciando l’assemblea appena eletta e sperando di lucrare sullo sbandamento della regione più ricca del suo Stato per continuare a mantenere il proprio potere. Ecco notizie che dovrebbero far riflettere i pesci bolliti tipo Mario Monti che suggeriscono di affidarsi a occhi chiusi all’Unione europea, notizie che aiutano a far comprendere la tensione morale di Bruxelles, Parigi e Berlino quando fanno lezioncine ai polacchi perché non rispettano i diritti delle opposizioni. A buttare benzina sul fuoco c’è anche la notizia che “l’ex presidente catalano Carles Puigdemont è stato fermato dalla polizia tedesca domenica, in una stazione di servizio dell’autostrada A7, poco dopo che aveva attraversato la frontiera danese entrando in Germania”. Così il sito del Fatto del 25 marzo.

Cari Monti e Scalfari non siete di fronte a una rivolta, quella del sistema politico italiano “c’est une révolution” e non si risolve con la brioche Gentiloni. Finché dal nuovo Parlamento non nascerà un nuovo governo, le posizioni dell’Italia saranno espresse, con piena legittimità, dal governo Gentiloni, nato dal vecchio Parlamento. Il presidente del Consiglio e diversi ministri hanno esperienza e godono di ottima reputazione”  così Mario Monti sul Corriere della Sera del 24 marzo. “L’ipotesi di un governo provvisorio non mi piace. Un governo esiste già ed è il governo Gentiloni, che proprio in questi giorni si sta occupando di problemi di notevole livello: il Consiglio d’Europa e quello che ne può scaturire”. Così Eugenio Scalfari sulla Repubblica del 25 marzo. Monti e Scalfari hanno profili molto diversi: il primo è stato commissario europeo su indicazione di Silvio Berlusconi, il secondo è stato il regista (con qualche recente pentimento) della lotta senza tregua al berlusconismo. Il primo è l’espressione di un establishment sempre più piccolo, punto di riferimento del Corriere della Sera innanzi tutto nel periodo tra il 1992 e il 2016 (poi è arrivato Urbano Cairo che rappresenta una realtà più complessa). Il secondo è compare, sia pure litigioso, di un Carlo De Benedetti legato a settori dell’establishment ma non a quello Fiat-centrico e comunque elemento centrale nella formazione delle idee correnti della sinistra specie quella prodian-veltroniana. Metaforicamente sono i due “re” dell’opinione pubblica conformistica della Seconda repubblica. Una monarchia parruccona a cui però manca un La Rochefoucauld che sappia spiegare come quella a cui si è di fronte oggi  non sia una rivolta, “c’est une révolution” e innanzi tutto contro l’ottusità etico-culturale dell’establishment mediatico che i nostri due rappresentano. In questo senso è evidente come i due non comprendano quel che sta avvenendo, e, a chi chiede realistico pane politico, si ostinino a offrire la brioche Gentiloni.

La Casellati non è Federzoni come Grillo non è Goebbels, se volete ascoltare la lezione della storia pensate piuttosto a chi non fece entrare nello Stato i populisti “neri” di Sturzo e i populisti “rossi” del Psi. Agli albori del regime la fusione fra il partito fascista di Mussolini e il partito nazionalista, determinante nelle vicende di inizio secolo, si era risolta in un’annessione: nel giro di poco tempo tutti i quadri nazionalisti trovarono ospitalità nei ranghi del Pnf, rinunciando a ogni autonomia”. Con la sua abituale finezza intellettuale, e quindi con tantissimi distinguo, Stefano Folli, usando Leo Longanesi, sulla Repubblica del 25 marzo alla fine compara Matteo Salvini a Benito Mussolini e Elisabetta Casellati a Luigi Federzoni nazionalista assorbito dai fascisti grazie all’offerta della presidenza del Senato. Il gioco storico è divertente, ma il nocciolo del paragone è una sciocchezza. Così come richiamare Adolf Hitler e Joseph Goebbels per spiegare Luigi Di Maio e Beppe Grillo. Noi non stiamo vivendo la fase degli anni Venti e Trenta, quando dopo i massacri della Prima guerra mondiale, si scatenò una feroce guerra civile continentale foriera di dittature e nuovi massacri. Se c’è una comparazione da fare è quella con la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, quando una fede acritica nel progresso, un antiparlamentarismo-antipopulismo guidato dalle élite fecero ritenere che tutte le contraddizioni principali fossero sotto controllo infilandosi così sonnambulisticamente nel tunnel del 1914 senza capire che cosa stava succedendo. In Italia questo stordimento portò le élite e i vertici di uno Stato subalterno a influenze francesi, dentro il conflitto del’15-18, liquidando il Silvio Berlusconi d’allora cioè Giovanni Giolitti ed emarginando le forze di destra e di sinistra che non volevano subordinarsi a un comando sovranazionale, né a quello delle forze degli Imperi centrali né a quello degli Alleati. Il voto del 4 marzo non c’entra con il voto del 1921, ricorda piuttosto l’emergere nel primo decennio del Novecento di una rivolta popolare alle èlite simile a quella attuale, espressa dagli sturziani (i populisti “neri” denunciati dal Corriere della Sera d’allora) e da quella socialista (i populisti “rossi”). Quella antica lezione ci aiuta a porre i quesiti giusti: si riuscirà questa volta a costituzionalizzare l’esprimersi di profondi sentimenti radicati nel popolo? Ad allargare le basi del nostro Stato? Ad esprimere un’autonomia nazionale simile a quella degli altri grandi paesi europei (Gran Bretagna, Francia, Spagna, Germania, Polonia)? Si riuscirà a ricostruire un rapporto tra élite  spesso ipercosmopolitiche e un popolo troppo spesso provinciale? Questa è la partita in corso. E, ribadiamo, non c’entra niente con le vicende segnate dalla Guerra civile europea: a quelle ci si può certamente arrivare, e la via migliore per farlo è sbagliare l’analisi come fa chi paragona Salvini a Mussolini e Grillo a Goebbels.

Il Pd e quei terribili scontri tra correnti democristiane impazzite sotto lo sguardo perso di qualche ex comunista. I renziani non si fidano più tanto del reggente”. Maria Teresa Meli sul  Corriere della Sera del 21 marzo descrive il clima di scatenate e spesso losche risse, congiure e controcongiure in atto nel Pd. Massimo D’Alema e Pierluigi Bersani hanno fatto una figura da cioccolatai organizzando un movimento che voleva essere di sinistra alla Corbyn o alla Tsipras, e mettendogli alla testa due pesci lessi come Pietro Grasso e Laura Boldrini. Ma d’altra parte comprendo come due ex dirigenti del Pci volessero scappare da quella maionese impazzita di correnti democristiane (più due superbolliti come Piero Fassino e Walter Veltroni, e qualche boyscout postcomunista come Maurizio Martina e Matteo Orfini) che era diventato il Partito democratico.