Quel (poco) che resta dei rapporti transatlantici dopo il viaggio di Obama

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Quel (poco) che resta dei rapporti transatlantici dopo il viaggio di Obama

07 Aprile 2009

Tra strette di mano e applausi è andata in archivio la tournée europea di Obama. Nonostante i sorrisi e le dichiarazioni di intenti comuni l’impressione è quella che la “luna di miele” post-insediamento alla Casa Bianca sia terminata. I più pragmatici osservatori di questioni euro-atlantiche lo avevano più volte anticipato: più multilateralismo significherà maggiori responsabilità per l’Europa. Ma l’Europa, sia in quanto Ue sia come insieme di Paesi, sarà in grado di uscire dal suo stato di minorità e contribuire alla governance globale, in particolare sui temi della sicurezza, si tratti di ambito militare o energetico? Ebbene dopo i vertici di Strasburgo e Praga qualche dubbio sull’attivismo europeo è lecito porselo e quasi certamente se lo porrà anche l’Amministrazione Obama.

Nella splendida cornice simbolica del sessantesimo anniversario della fondazione della Nato, gli europei si sono spellati le mani nell’applaudire il Presidente Usa quando ha confermato la sua strategia in Afghanistan: impossibile vincere solo attraverso la strategia militare. Il suo discorso non si è però fermato a questo punto, ma i principali Paesi europei hanno finto di non ascoltare Obama mentre aggiungeva che la vittoria militare resta una condicio sine qua non per arrivare alla sconfitta dell’islamismo radicale dell’area che, peraltro, dovrebbe impensierire più l’Europa che gli stessi Stati Uniti. Come possono i Paesi europei credere di raggiungere lo spesso sbandierato “ri-equilibrio” dei rapporti interni alla Nato se non riescono nemmeno a racimolare 5000 unità combattenti per lo scontro in Afghanistan e si limitano a fornire poco meno di 4000 addestratori (solo per il periodo delle elezioni di agosto) e una somma di denaro del tutto insoddisfacente? Come pensano inoltre di rendere credibile il progetto di difesa comune europea quando, se si eccettuano Francia e Gran Bretagna, i bilanci militari dei Paesi Ue costituiscono una percentuale irrisoria del Pil nazionale?

Il secondo punto di evidente imbarazzo tra Washington e il Vecchio Continente è poi emerso sulla questione Turchia. Le parole di Obama a proposito della necessità che Ankara sia maggiormente associata all’area di influenza occidentale e che di conseguenza l’ingresso nell’Unione potrebbe costituire un importante segnale per l’intero mondo mussulmano non è piaciuta a Sarkozy e nemmeno a Merkel. Ma al di là della polemica momentanea, le parole del Presidente Usa confermano due importanti tendenze. Da un lato certamente il desiderio di Obama di prepararsi il terreno in vista del viaggio odierno in Turchia, di continuare nella sua strategia di “corteggiamento” di Ankara per fini immediati, (garantendosi la possibilità di utilizzare la base di Incirlik per il ritiro delle truppe americane dall’Iraq) e di poter contare sulla diplomazia turca per le sue relazioni con l’Iran e la Siria, ma anche di garantirsi un maggior coinvolgimento turco in Afghanistan.

Dall’altro la dichiarazione di Obama ha finito per riportare in primo piano un nervo scoperto dell’Ue. È noto che le posizioni tra i 27 non sono univoche rispetto all’allargamento alla Turchia.

Il negoziato formale è stato aperto il 3 ottobre del 2005, ma sul finire del 2006 prima il Parlamento europeo, poi la Commissione e infine il Consiglio hanno impresso un’importante battuta d’arresto ai negoziati. Le critiche ad Ankara, oltre a concentrarsi sulla questione della pena capitale, sui diritti dei prigionieri, su quelli delle donne e sul ruolo dei militari nella vita politica del Paese, hanno riguardato il nodo irrisolto di Cipro, Paese membro dell’Ue ma non riconosciuto da Ankara. Nel marzo del 2007 i negoziati sono ripartiti e ad inizio 2008 sono stati aperti altri quattro protocolli. Proprio il 2008 doveva essere l’anno della svolta, ma il Commissario all’allargamento Olli Rehn continua a ripetere che si potrà parlare di un’adesione piena della Turchia alla Ue solo tra 10-15 anni.

Oltre alle questioni tecniche è noto che il dossier turco è fonte di una profonda lacerazione tra i principali Paesi dell’Ue. La Francia di Sarkozy è assolutamente contraria e lo è altrettanto, anche se meno esplicitamente, la Germania di Merkel. Un ulteriore allargamento potrebbe finire per accentuare i sentimenti di anti-europeismo, già piuttosto forti alla vigilia delle elezioni europee e fornire l’impressione che l’Ue tra la strada dell’approfondimento e quella dei continui allargamenti scelga nuovamente la seconda opzione. Peraltro secondo i più recenti sondaggi (uno significativo è apparso su Le Figaro nell’autunno del 2008) confermano una netta opposizione delle opinioni pubbliche a questo ulteriore allargamento: 56% e 51% di “no” tra gli italiani e gli spagnoli, addirittura 80% e 76% di opinioni negative in Francia e Germania (la media europea dei favorevoli è ferma al 33%).

Non bisogna inoltre dimenticare che il “no” franco-tedesco deve non poco ad un’analisi attenta degli equilibri interni al Consiglio europeo: l’ingresso di Ankara, con i suoi oltre 70 milioni di abitanti (peraltro in grande crescita) finirebbe per modificare il complicato meccanismo della ponderazione del sistema di voto. Di avviso opposto sono Italia, Spagna e Gran Bretagna più attente alle immediate ricadute economiche e politiche che potrebbe avere un’adesione turca, magari evitando in una prima fase di allargare lo spazio di Schengen al territorio turco, come peraltro si è fatto con Bulgaria e Romania.

Insomma le parole di Obama sono destinate ad infilarsi come una lama nelle contraddizioni interne all’Ue e nella sua incapacità di assumere posizioni univoche sui più delicati dossier e certamente quello turco è di notevole rilevanza anche per le ricadute simboliche che può avere sull’opinione pubblica continentale.

Dunque a Londra si è scongiurata la rottura euro-atlantica sulle ricette da applicare alla crisi economica, ma a Strasburgo l’Europa ha confermato la sua cronica debolezza sui temi della sicurezza collettiva e a Praga le sue molteplici contraddizioni interne. Non uno splendido spettacolo quello offerto dal Vecchio Continente al nuovo inquilino della Casa Bianca. Inutile meravigliarsi se a Washington, nell’immediato futuro, preferiranno parlare con Pechino e Mosca o, al massimo, con qualche singola capitale europea.