Quella italiana è una storia di Patrie distinte e fra loro in collisione
06 Giugno 2011
Vi è nella forma presa dalle celebrazioni per l’Unità d’Italia, non escluso il recente 2 giugno, qualcosa di insopportabilmente sforzato e paternalistico che induce a riflettere ancora, e non solo per liberarsi di un peso. Enti e soggetti di qualche rappresentatività, comuni, associazioni, non seconde le chiese (data la loro sostanziale ‘pubblicità’), tutti presi da un effetto di trascinamento, non si sono sottratti all’invito del ‘padrone di casa’, il Presidente della Repubblica.
Come sempre gli invitati ad una cerimonia hanno espresso educati complimenti, pensose considerazioni di circostanza, non per questo insincere ma stereotipe. Non se ne dia responsabilità a Napolitano che, nel premere ed esortare, non imponeva perciò il conformismo. Ma può sorprendere che, per fare un esempio, dalla complessa storia politica e intellettuale di Aldo Cazzullo sia potuto sbocciare un editoriale come quello del 2 luglio (sul Corriere della Sera) che fa istanza di “un Paese unito attorno ai valori costituzionali” e termina sull’elogio cavouriano di Garibaldi. Non credo il Presidente gli chiedesse tanto; a Firenze di dice: ‘anche meno…’.
Così, degli interrogativi del dibattito corrente sull’Unità, tra ideologico e storiografico, non è arrivata in sede politica pubblica nessuna eco. Molte paterne messe in guardia. Ma anche per questo vi sarebbero attenuanti. Il conflitto tra gli antiunitari che imputano al Nord il saccheggio del Sud e quelli che denunciano il Sud come un insopportabile fardello per l’Italia moderna è di mediocrissima qualità (intellettuale e politica). Idoneo a dare occasionalmente corpo a frustrazioni e risentimenti, non va ignorato, ma non può essere un predicabile. Solo che non è questo il punto. Perché l’apparecchio celebrativo, messo in moto con qualche fatica ma, alla fine capillare e martellante, divide gli italiani in passionari (prevalentemente antigovernativi), insofferenti (prevalentemente filogovernativi) e indifferenti, forse la maggioranza? Perché l’unità e l’autodeterminazione politica del Paese, lo Stato-Nazione realizzato 150 anni fa, sono ‘sentiti’ prevalentemente entro un’oscillazione tra il non problematico (chi può metterli seriamente in discussione, salvo minoranze nostalgiche e umorali?) e il poco significativo: l’Italia è oggi un dato certo, di dominante rilievo pratico, un mero irreversibile fatto.
D’altronde, nessun “patriottismo costituzionale” ha potuto né può supplire alla distruzione postbellica di quella “religione civile” che era stata il portato risorgimentale, poi il rinnovato obiettivo dei nazionalismi e l’opera del Fascismo. È difficile, e specialmente poco utile alla nostra coscienza dei fatti, negare che il cosiddetto ‘secondo Risorgimento’ ha portato le libertà repubblicane, ma è stato pagato (è noto che la storia non fa regali) con la creazione di almeno due Patrie (la tesi di Galli della Loggia): quella dei liberatori, scarsamente ‘patriottici’, e quella dei liberati, in maggioranza poco propensi a ‘riconoscere’ i liberatori come rappresentanti della Patria. E il declino, forse la scomparsa, di tale dualismo delle patrie italiane negli ultimi venti anni, non ha ammesso surrogati.
Il patriottismo costituzionale e le alleate culture civili anti-berlusconiane sono, in effetti, surrogati che scendendo in campo ridisegnano quasi le stesse linee di faglia della divisione precedente. Nel quasi cinquantennio protorepubblicano (1945-1993) una linea di faglia separava le estraneità cattoliche e socialiste/comuniste alla Patria, da un lato, e i sostrati culturali, o i segmenti, dell’identità italiana inattaccabili da quella politica, dall’altro. Dopo il 1994 il “patriottismo costituzionale” agisce da sostegno per l’intelligencija, la rianima, penetra forse le generazioni attraverso la scuola e i media, ma la sua ‘funzione educatrice’ non supera quella frattura, anzi la accentua. Comunque, non ha niente a che fare col ‘sentire la Nazione’. Quale identità nazionale, ad esempio tra quelle esemplari in Europa, ha solo 150 anni o, addirittura, solo 65 anni di gestazione? E come può venire fondata sul costrutto necessariamente artificiale di uno stato moderno, di modello, altrettanto necessariamente, ‘importato’? O come, e ancora più sostanzialmente, può fondarsi ‘amor di Patria’, che è determinato e peculiare, su una Costituzione, necessariamente universalistica? I Costituenti, per primi, non ebbero istanze né problemi del genere (forse ne ebbero di opposti).
Il mero fatto dell’unità, quella unità in cui, oggi, si ravviva con fatica la pratica dell’inno nazionale e della bandiera dopo decenni di distacco sufficiente o sprezzante (qualche volta da parte delle stesse culture e persone che oggi mettono il tricolore alle finestre), è dunque il cemento più forte del Paese, forse l’unico. È saggio, è seriamente politico, invitare gli italiani all’unità, cioè a tenere conto, a fare tesoro, dei fatti, poiché nient’altro ha la forza dei fatti, la loro qualità legittimante. Ma la (ri)costruzione del sentire civile comune, del ‘noi’ politico, esigerebbe, come per francesi e tedeschi, spagnoli o polacchi, una interiorizzazione della lunga durata della storia d’Italia che non ne escluda – mi è già capitato di scriverlo – alcuna stagione, alcun secolo.
L’identità italiana, che è più dell’identità repubblicana, deve sapersi (contro le fratture risorgimentali) egualmente costituita dall’Italia imperiale romana e da quella feudale, dall’Italia dell’ordine papale e delle ‘rivoluzioni’ cittadine, del Rinascimento e dell’età tridentina, dell’Ancien Régime e della ‘nuova Italia’, del Fascismo e della Repubblica. “Noi” siamo dialetticamente tutto questo, e siamo ‘responsabili’, entro la simbolica politica che adeguatamente ci ‘rappresenta’ e identifica, di tutto questo. Niente Patria, solo Patrie distinte potenzialmente in collisione, e molte non-Patrie, dunque, senza comuni ‘istituti di memoria’ di nuova (ma antica) consistenza.
S’intende che non siamo obbligati ad un tale percorso. Nella sedimentazione dei suoi ‘caratteri originali’ l’Italia è anzitutto terreno di tangenze e di plasmazione di culture; è stata centro di imperi; ha avuto e conserva nella Roma cristiana la sua millenaria proiezione ‘ecumenica’, ossia sull’intero mondo abitato. Possiamo ben continuare a sentirci – ed esistere – ‘eccentrici’ a noi stessi. Ma se preme dibattere dell’unità e della patria come forma e valore lo si faccia con altro respiro, altro linguaggio, da quello dei surrogati ‘costituzionali’ o del “battersi e morire per riconquistare una patria” (che più che ai Mille sembra guardare ai ‘girotondi’).