Quell’Europa medievale ricca di santi, reliquie e senso del sacro
08 Aprile 2012
di Luca Negri
È Pasqua, Cristo è risorto. In carne, ossa, sangue; in splendore. Testimonia una religione fondata non sull’immortalità dell’anima ma sulla resurrezione della carne. Bestemmia per taluni, follia per altri, evento e promessa per milioni e milioni di uomini e donne negli ultimi duemila anni. Un culto che riservava una tale devozione alla concretezza materiale e storica, a differenza di quelli precedenti così astratti e cosmici, doveva per forza di cose manifestarsi attraverso le reliquie. Qualcosa di concreto, da sperimentare con i sensi, da vedere con gli occhi, toccare con mano, anche baciare; addirittura mangiare come un ostia, così fece Sant’Ugo di Lincoln nel XII secolo, quando diede un morso al braccio della Maddalena, con grande imbarazzo dei monaci custodi delle reliquia.
Un bel viaggio in un’Europa dove potevano succedere cose simili, dai primi vagiti della cristianità fino all’epoca della Controriforma, ce lo offre lo studioso inglese Charles Freeman con “Sacre reliquie” (Einaudi). E’ un saggio scritto da un punto di vista scettico, centrato sugli aspetti storici e sociologici della questione, dunque interessante per credenti e non. Il lettore scopre che soprattutto durante il Medioevo pullulavano oggetti sacri un po’ in tutto il continente, ovviamente in monasteri, chiese, cattedrali, cappelle regali. Inevitabile che il fenomeno diventasse un business redditizio (dava da mangiare a molti monaci) e un gioco di potere (Carlo Magno e Luigi IX di Francia acquistarono molti punti in sovranità sacra collezionando reliquie). Stiamo parlando di corpi di santi morti, interi o, su richiesta di altri monasteri e re, pure a pezzi. E poi ossa, sangue di Cristo e dei martiri, latte del seno della Madonna, abiti, corone di spine, chiodi della croce, frammenti della croce stessa, capelli della Maddalena (oltre al braccio sopra citato).
Sulle tombe di molti santi, ad esempio su quella di San Thomas Becket a Canterbury, si verificavano miracoli, lo stesso avveniva negli altri luoghi dove venivano custodite prove della verità cristiana più o meno assurde. Non stupisce affatto che si verificassero furti di cadaveri santi, sempre incorrotti e profumatissimi (cosa che succede ancora oggi, anche con Pio IX); anzi tale attività fu un’eccellenza italiana grazie alle note operazioni San Marco dei veneziani e San Nicola dei baresi. Il premio della missione era prestigio politico, protezione celeste, malati guariti, finanze sicure.
Ai miracoli si può credere o meno, o si può sospendere il giudizio finché la scienza non troverà tutte le cause, sempre che riesca a farlo prima dell’Apocalisse. Freeman pare agnostico, talvolta si concede qualche ironia anglosassone e bene fa ad evidenziare tutte le storture. Chiaramente, gran parte delle reliquie erano palesemente false, già solo il loro numero è poco credibile: la croce del Calvario non poteva avere più di tanti chiodi, né la mammella di Maria contenere così tanto latte. È indubbio che molti disgraziati membri del clero si prendessero gioco della fede popolare, che il diffondersi dei culti locali tendesse al politeismo tribale (infatti il Vaticano non era sempre entusiasta e faceva inchieste serie già a quei tempi), che per mettere le mani su quei sacri tesori si facessero guerre sanguinose.
Storture dell’uomo e della storia a parte, per comprendere il fenomeno occorre abbandonare i panni ben stirati dell’accademico moderno ed indossare quello del flagellante, del monaco, del cavaliere e del contadino medioevale. Per la mentalità magica e sacrale del periodo contava molto relativamente l’esatta prova storica, l’originalità assoluta della reliquia. La si caricava comunque di fede, sentimento, desiderio, diveniva uno strumento concreto per avvicinarsi al divino. La forza della fede popolare permetteva i miracoli, non riusciva a spostare le montagne ma guariva tumori, cecità, malattie mentali. Si dice che qualcuno risorse, da morte forse apparente. Cose che succedevano perché nei pressi c’era qualcosa di sacro, da poter vedere almeno una volta l’anno, forse da toccare. Era la versione personale dell’esperienza di Tommaso l’incredulo, l’apostolo che dovette affondare le dita nelle ferite del Cristo risorto per credere. Ed era la presenza dell’eredità pagana, fusa con quella ebraica per dare vita alla grande sintesi cristiana.
La festa finì con la Riforma. Lutero non aveva in uggia solo le indulgenze, tutta la paccottiglia idolatra in giro per l’Europa andava spazzata via; Calvino fu ancora più fanatico iconoclasta. Togliendo però un tassello fondamentale della religione dell’incarnazione e della resurrezione della carne, crollarono con effetto domino tutte le fondamenta del cattolicesimo, anzi dell’intera civiltà cristiana. Abrogando per legge le reliquie si finì per negare anche la funzione dell’arte sacra: torme di fanatici sobillati ad altro tipo d’arte bruciarono e distrussero altari, dipinti, statue, cappelle. Come diciamo oggi, un patrimonio inestimabile andò perduto. Alla fine le messe diventarono chiacchierate fra amici o comizi o assemblee di condominio, si edificarono templi spiritualmente stimolanti quanto un garage di periferia. Negando il culto dei santi, il loro potere di intercessione, il Purgatorio, l’Eucaristia, Dio tornò un astratto giudice, uno spirito lontano, roba per filosofi (o per musulmani).
La Controriforma si diede da fare parecchio per salvare il salvabile, ma il fanatismo terrorista dei giacobini avrebbe fatto di peggio ancora. L’Europa che infranse le vetrate della Cattedrale di Chartres covava ancora parecchie disgrazie: all’industria eco-compatibile dei finti denti di martiri e dei pellegrinaggi si sostituì quella più inquinante e schiavizzante delle ciminiere, ai colpi di spada per impadronirsi di una pietra proveniente dalla Terra Santa si sostituirono i campi di sterminio e le bombe atomiche per mire geopolitiche. Lo chiamano Progresso. Forse l’unico progresso reale è quello del succedersi delle stagioni che ogni anno ci riporta la festa della resurrezione di Cristo.
Buona Pasqua a tutti.