Quelli che… io non voglio il posto fisso

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Quelli che… io non voglio il posto fisso

17 Novembre 2008

 

Nonostante le vivaci polemiche suscitate la scorsa estate dalla presentazione dell’emendamento cosiddetto antiprecari alla manovra finanziaria, poi maldestramente corretto per tranquillizzare gli animi degli insorti, non si son date molte notizie sul prosieguo della vicenda né si è voluto aprire un confronto più sereno sull’adeguatezza dell’attuale regime sanzionatorio in tema di contratti a termine.

Riassumendo, ricordiamo che l’on. Fleres, relatore della manovra finanziaria (il famigerato decreto legge 112/08 convertito dall’ancor più vituperata legge 133/08), propose di sanzionare la violazione di alcune disposizioni in materia di contratto a tempo determinato con il pagamento di una somma da 2,5 a 6 mensilità anziché con la conversione del contratto a tempo indeterminato. Per le ipotesi più gravi, come la successione di contratti a termine oltre i limiti stabiliti o il ricorso al contratto a tempo determinato per la sostituzione di lavoratori in sciopero, la sanzione prevista sarebbe rimasta la conversione del contratto a tempo indeterminato.

L’emendamento poteva esser corretto in più modi per garantire maggiormente questa tipologia di “precari”, quel 9,4% di lavoratori impiegati con contratto a termine. I sindacati avrebbero potuto chiedere un sostanzioso aumento della somma da versare al lavoratore in caso di apposizione illegittima del termine, tale da consentirgli di cercarsi serenamente una nuova occupazione, nel caso le parti non concordassero il reintegro a tempo indeterminato. Si reagì, invece, con l’alzata di scudi per difendere ad oltranza il diritto alla stabilità del posto di lavoro e sollevando nuove polemiche sulla precarietà del lavoro e sulla scarsa sensibilità in materia dimostrata dalla maggioranza.

In conclusione, l’iniziativa dell’on. Fleres fu in parte stroncata in Senato e sconfessata dal Governo. Si giunse pertanto ad un compromesso: l’indennità è applicata ai soli procedimenti in corso per alcune circoscritte ipotesi di violazione della legge, mentre resta salvo, per i ricorsi futuri, il reintegro in caso di apposizione illegittima del termine o ripetizione della proroga del contratto. In questo modo sono state soddisfatte le esigenze che, probabilmente, alcune società direttamente toccate dalla questione avevano fatto presente alle istituzioni e nel contempo si sono placate le polemiche; unico effetto collaterale, paventato dal servizio studi della Camera, la possibile violazione del principio costituzionale di eguaglianza e ragionevolezza. Si hanno, infatti, lavoratori che, nella medesima situazione di fatto, riceveranno una tutela diversa a seconda del momento in cui hanno presentato ricorso. Si potrebbe obiettare che in ogni caso una norma che modifica una disciplina sanzionatoria produce simili conseguenze; più difficile sostenere la ragionevolezza della norma stessa. Sarà, ad ogni modo, la Corte costituzionale, adita dai tribunali di Genova e Bari lo scorso settembre, a decidere sul caso.

Sarà interessante conoscere il tipo di pronuncia con cui si concluderà l’esame: dopotutto, se il problema consta non nel contenuto della sanzione, ma nell’irragionevolezza della parentesi temporale in cui va applicata una sanzione anziché un’altra, quale dovrebbe essere il regime da mantenere in via definitiva? La Corte si potrebbe benissimo pronunciare per l’incostituzionalità della disposizione, nella sola parte in cui limita l’applicazione della sanzione pecuniaria ai soli giudizi in corso, giacché il principio di ragionevolezza e di uguaglianza richiederebbero la sua applicazione della stessa anche ai giudizi futuri. In tal caso la sanzione pecuniaria sostituirebbe il reintegro in via permanente. Una pronuncia di tipo “riduttivo”, che espunge solo il periodo della disposizione che limitando l’applicazione della norma ai soli giudizi in corso dà luogo alla violazione dei principi costituzionali, dovrebbe dar avvio ad un confronto più meditato sull’opportunità di correggere il quantum, più che la natura della sanzione.

Si comprenderà, probabilmente, che ogni argomento avanzato da quanti difendono la conversione del contratto e l’instaurazione di un rapporto a tempo indeterminato poggia su un presunto dato culturale: il dogma del posto fisso. Sembra ancora radicata (o si è convinti lo sia) l’idea che il miglior modo di tutelare il lavoratore sia obbligare il datore a tenerlo con sé a vita, anche contro la sua volontà e anche se ciò si traduce nell’inserimento del lavoratore in un ambiente ostile; non è percepito come in questo modo si comprometta quello spirito di cooperazione che consentirebbe altrimenti l’avanzamento della carriera lavorativa, da un lato, un maggiore incentivo alla produttività, dall’altro. Il lavoratore assunto a tempo indeterminato a seguito di una sentenza è, insomma, libero ma escluso da ogni rapporto di fiducia ed ogni prospettiva. Non è affatto, quindi, l’orizzonte sperato da chi, fresco di laurea o di diploma, cerca di costruirsi una lunga e promettente carriera lavorativa.

Senza contare che irrigidire il mercato del lavoro mediante una disciplina sanzionatoria può produrre conseguenze negative per tutti. I lavoratori assunti a tempo indeterminato in forza ad una sentenza del giudice sono allocati in imprese che spesso ricorrono a contratti a termine per l’incertezza e l’instabilità del loro business. Di fatto, sanzionando con la conversione del rapporto di lavoro si rischia di scoraggiare il collocamento dei lavoratori nelle imprese con migliori prospettive per allocare stabilmente risorse umane dove potrebbero un giorno risultare inefficienti o addirittura capaci di contribuire ad una crisi aziendale.

Che alla radice delle polemiche contro la cosiddetta norma antiprecari ci sia un dato culturale davvero insuperabile ed imprescindibile non è così scontato. Se l’indagine condotta nel 2002 da Boeri e Garibaldi rivelava la preferenza degli Italiani per un mercato in cui è difficile trovare il lavoro, ma una volta trovato è difficile perderlo, si sottolineava anche la maggior propensione dei giovani ad accettare la flessibilità e, perché no, la precarietà, se ciò rende facile anche trovare in tempi brevi una nuova occupazione. Anche la rapida crescita della membership del gruppo facebook “io non voglio il posto fisso, voglio guadagnare”, di Piercamillo Falasca, che si riunirà anche nella vita reale il prossimo 29 novembre a Roma, sembra suggerire una lenta ma significativa trasformazione culturale.

La persistenza di un dato culturale, che vede nel posto fisso un diritto e una conquista da strappare all’altra parte contraente, trova tuttavia ancora una giustificazione in un dato istituzionale. Sul piano normativo, pesa ancora la mancata ristrutturazione delle politiche per il lavoro, che, sbilanciate a favore di quanti hanno già un contratto a tempo indeterminato e sono occupati nelle grandi imprese, ignorano del tutto le categorie più deboli. Con la delega sugli ammortizzatori sociali che il Parlamento si appresta a rinnovare e a seguito della pronuncia della Corte Costituzionale sulla norma detta antiprecari dovrebbe riaprirsi un dibattito dai confini labili, che abbracci, oltre alle esigenze di una flessibilità sostenibile, i due livelli del mercato del lavoro, le contraddizioni tra questi e al loro interno.