Quello che manca all’Occidente è un nuovo Reagan

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Quello che manca all’Occidente è un nuovo Reagan

25 Aprile 2017

I risultati del primo turno delle elezioni presidenziali francesi sono sostanzialmente in linea – al netto di qualche specificità locale – con le principali tendenze in atto nelle democrazie euro-occidentali. In particolare, esse ci forniscono ulteriori dati utili a comprendere il destino delle maggiori “famiglie” politiche che sono state protagoniste nella sua storia, e le nuove polarizzazioni ideologiche che si vanno delineando. 

Il primo elemento rilevante evidenziato dall’esito elettorale d’oltralpe è il tramonto del socialismo (e quasi sicuramente ormai la prossima scomparsa). L’ideologia che è stata protagonista indiscussa dell’Otto e del Novecento – nella forma del marxismo-leninismo rivoluzionario comunista e in quella delle socialdemocrazie riformiste europee – è stata uccisa dalla globalizzazione. Pur fondandosi su un’opzione internazionalista e in proiezione “globalista”, il socialismo marxista in realtà storicamente ha prosperato – sia nei regimi comunisti che nei governi socialdemocratici – soltanto all’interno di stati nazionali dai confini ben protetti, che consentivano il monopolio statale collettivista e il lavoro/consumo forzato, o viceversa l’interventismo statale keynesiano in economia fondato sul “deficit spending” e sul mercato interno. 

Oggi tutto questo sarebbe impossibile per le dinamiche di un’economia sempre più interconnessa e interdipendente. Per cui i partiti socialisti si riducono a percentuali elettorali risibili (Hamon in Francia, Corbyn in Gran Bretagna, Sanchez in Spagna), e della sinistra rimane vivo soltanto un populismo radicale, nazionalista e antiglobalista, bene espresso in Francia da Melenchon, e prima di lui altrove dai vari Tsipras, Podemos, e in parte dal Movimento 5 Stelle. Un populismo però intimamente contraddittorio, perché da un lato invoca la piena sovranità nazionale in economia e il protezionismo a difesa delle classi lavoratrici minacciate dai mercati globali, ma dall’altro professa un assoluto globalismo sul tema dell’immigrazione, e sostiene l’ideale di società integralmente multiculturali. Per questo motivo le sue potenzialità di consenso sono limitate, e molti potenziali elettori di schieramenti di questo tipo preferiscono i nuovi nazionalismi di destra, più coerenti nel loro localismo. 

Il secondo dato importante confermato dal recente voto francese è il fatto che, nel grande vuoto politico e culturale creato dal tramonto del socialismo, la parte più consistente delle sinistre occidentali si trasferisce in blocco in una nuova “famiglia” ideologica: il globalismo progressista, del quale la vittoria (probabile) di Emmanuel Macron nella corsa all’Eliseo rappresenta una tra le più eloquenti manifestazioni. 

Come Obama e la Clinton negli Stati Uniti, Macron è l’espressione delle élites borghesi transnazionali che sostengono tanto la concorrenza di mercato quanto la società multiculturale, non credono nello “scontro tra civiltà” e identificano il progresso nell’allentamento di tutti i legami sociali ed etici tradizionali, in favore di una società planetaria di individui consumatori. Un “partito” mondiale il cui autentico leader e ideologo è oggi il fondatore di Facebook Mark Zuckerberg, addirittura possibile prossimo sfidante di Donald Trump per la corsa alla Casa Bianca, e il cui nocciolo duro è costituito dalle grandi multinazionali dell’economia digitale. Nel vecchio Continente queste posizioni si presentano in forma più dirigista e tecnocratica, come sostegno al rigore finanziario “merkeliano” e “nordico”, rafforzamento dell’asse franco-tedesco, politica di apertura all’immigrazione dai paesi afro-asiatici. Il tutto unito ad un accentuato relativismo laicista sia sui temi dell’integrazione tra culture che su quelli bioetico-antropologici. 

Insomma, mentre gli elettori di sinistra “sconfitti” dalla globalizzazione votano i Melenchon, gli Tsipras e simili, le classi dirigenti di sinistra colte e “chic” oggi sono globaliste a tutto tondo (a differenza di una quindicina d’anni fa, quando avversavano la globalizzazione come manifestazione dell'”imperialismo” americano). In Italia, Matteo Renzi ha tentato, e tuttora pretende, di qualificarsi come rappresentante di questo nuovo progressismo: ma, a differenza di Macron, non ha fondato un suo movimento personale (il famoso “partito della Nazione” da molti suoi corifei invocato), bensì ha scelto di rimanere nel recinto del Partito democratico e del Pse, e quindi invischiato in una insuperabile contraddizione tra aspirazioni liberal-globaliste e zavorra ideologica del vecchio statalismo, nel nostro paese ancor più corporativo e assistenzialista che altrove. 

Infine, il terzo punto sul quale il primo turno elettorale francese allinea la repubblica transalpina ai trend attualmente dominanti nelle democrazie occidentali è la forte difficoltà in cui si trovano le forze liberal-conservatrici di fronte alla crescita delle nuove destre sovraniste: in questo caso rappresentata dall’insuccesso del candidato gollista François Fillon e dalla ulteriore avanzata del Front National di Marine Le Pen, benché probabilmente insufficiente a garantire ad esso la conquista dell’Eliseo. 

Come l’elezione di Trump negli Stati Uniti ha reso evidente, se le ex sinistre occidentali sono diventate in gran parte globaliste, al contrario l’idea della destra tende oggi sempre più a coincidere con il revival del nazionalismo. Nel mondo anglosassone questa svolta passa attraverso un cambiamento di linea politica dei partiti conservatori tradizionali (i repubblicani Usa colonizzati dal presidente tycoon e i Tories britannici sostenitori della Brexit), e certamente produrrà, al di là delle dichiarazioni propagandistiche, una mediazione tra misure protettive e apertura agli scambi globali. Nell’Europa continentale invece, come è noto, essa si traduce prevalentemente nella crisi profonda dei partiti liberali, moderati, popolari, e nella affermazione massiccia – in particolare nell’area centro-orientale del continente – di nuovi schieramenti nazional-populisti. Schieramenti protezionisti e statalisti in economia, isolazionisti in politica estera, fautori di una politica di chiusura sull’immigrazione, spesso (ma non sempre) fautori di un ritorno alla morale religiosa contro secolarizzazione e relativismo etico. 

In conclusione, le elezioni francesi dimostrano ancora di più, se ce ne fosse bisogno, che nelle principali democrazie occidentali i socialisti e la destra liberal-conservatrice, per tanto tempo architravi della dialettica politica, sono o in via di estinzione o in grave affanno, e al loro posto si è affermato ormai un nuovo bipolarismo tra globalismo e sovranismo

La differenza tra i due casi sta però nel fatto che la sinistra di ispirazione socialista appare effettivamente esaurita, resa ormai improponibile da mutamenti storici troppo profondi per poter essere inseriti nel suo schema ideologico. Laddove invece la destra liberal-conservatrice e popolare in teoria avrebbe grandi margini di ripresa – dal momento che il mercato globale è un fenomeno contraddittorio ma inevitabile, e ha prodotto complessivamente più ricchezza che disagio –, ma al momento appare incapace di rispondere con parole d’ordine convincenti alle paure di ampie fasce sociali, che per questo si sentono più protette dai nazional-populisti. 

Si avverte fortemente, insomma, in Occidente la mancanza di una leadership politica di tipo “reaganiano”, fondata sulla sintesi tra liberalismo economico, politica securitaria e conservatorismo sulle questioni biopolitiche-antropologiche. Una leadership che riunisse di nuovo l’aspirazione tradizionalista alla stabilità sociale con il dinamismo proprio delle società aperte potrebbe tornare ad ispirare nei popoli euro-occidentali speranza nel futuro ma anche, al contempo, senso di sicurezza rispetto ad un presente tanto travagliato.