Quello col parka, quello col vestito a costine, io e il ’68
29 Marzo 2008
Quando
si ha bisogno dell’autista, l’affare si fa serio. Ci sono giorni nei
quali il candidato si muove di qua e di là, parlando un po’ di tutto.
Gli tocca fare il juke-box: scelgono il disco e lo deve interpretare.
In questi casi o si ha chi ti guida – nel senso autentico del termine –
o si va a sbattere.
Ieri è stato uno di quei giorni. Il
programma è fitto. Prevede una conferenza stampa a Roma sulla politica
estera; un canvass elettorale (termine tratto da Ostrogorski: il primo
ad aver scritto un libro sui moderni partiti. In volgare si traduce
“porta a porta”) a Siena tra professori universitari; un intervento in
un convegno, sempre a Siena, sulla convivenza tra culture; un dibattito
a Terranova Bracciolini sul Sessantotto.
Il più bello arriva
in fondo alla giornata. Parto da Siena alle venti condannato a
cinquanta chilometri di curve, resi sopportabili soltanto dalla visione
di una volpe dalla lunga coda che entra nella macchia e di un enorme
falco che plana sulla notte.
Al nostro arrivo il paese è
deserto. Ci fermiamo a chiedere informazioni a una donna che passeggia
solitaria con un grande cane lupo. Ma lei scappa. Dopo qualche giro, da
soli – il navigatore ci aveva da tempo abbandonati – raggiungiamo
l’indirizzo. Sono le nove e dieci. Capisco che si tratta della sala
consiliare. Carducci l’avrebbe immortalata come la versione
post-moderna del comune rustico: cotto sui pavimenti, pareti
affrescate, capriate e travi in vista. Su questo sfondo, arredamento
moderno-spinto. Il tavolo delle riunioni, a ferro di cavallo, è di
vetro; i lampadari sono due cerchi di metallo inserito l’uno
nell’altro. Quel che più conta, è che a distanza di sicurezza dalle
“autorità”, lo spazio riservato al pubblico è gremito. L’impressione è
che il paese si sia ritrovato in quello stanzone istituzionale per
ascoltare un dibattito. Roba da non credere!
I miei
interlocutori sono due consiglieri regionali che, su diverse barricate,
hanno fatto il Sessantotto. Hanno circa dieci anni più di me. Uno al
tempo era fascista, le prese e si è fatto un mese di ospedale con guai
permanenti acclusi. Ora è candidato per il Popolo delle libertà, come
si dice, “in quota An”. L’altro era di Lotta Continua. A prima vista
non mi pare uno che né le abbia date né le abbia prese. E oggi è del
Partito Democratico.
Prima d’incrociare le lame si
dimostrano affabili e simpatici, sensazione che si rafforza col
trascorrere delle ore. Li scruto e già al primo sguardo comprendo che
contro il Sessantotto sarò solo. Hanno entrambi i capelli assai più
lunghi dei miei (residuo paretiano?). Quello di destra è avvolto in un
voluminoso parka; quello di sinistra veste un completo di velluto a
costine marrone. Penso tra me e me “ho fatto bene a portarmi, come
alleato, il libro di Nicola Matteucci”.
Non mi sbaglio. Nel
primo giro d’interventi mi limito a ricostruire storicamente il
fenomeno e ad avanzare delle forti perplessità d’ordine culturale. “Col
parka” fa un dignitosissimo discorso nel quale, mutatis mutandis, mi
sembra di risentire gli echi della distinzione di Almirante tra
“fascismo movimento” (quello buono) e il “fascismo regime” (quello
cattivo). Lui pure, infatti, sostiene l’esistenza di un Sessantotto
buono (quello della “rottura”, portatore di un’esigenza – come dice –
“etica e di costume”), che si fa cattivo quando s’istituzionalizza.
“Col vestito a costine”, invece, senza differenziazioni e scarti resta
tutto immerso nel mito.
Decido di affondare i colpi,
politicizzando l’analisi e non concedo più niente alle sfumature. Ci
ricavo qualcosa, ma non molto. “Col parka” si colloca in una sorta di
terza via. %E2