Quello spazio pubblico precluso ai cattolici
22 Dicembre 2015
Eugenia Roccella in una lettera al Foglio lo scorso 10 dicembre, a proposito del dibattito sull’utero in affitto nato dall’intervento di alcune femministe, scriveva: “I figli non si comprano. Sì, i cattolici l’hanno detto fin dall’inizio, hanno provato a forare, con le stesse argomentazioni, il muro elastico dell’anticattolicamente corretto, ma la discussione si apre solo quando sono le élite riconosciute ad esprimersi, e i manifestanti del 20 giugno (che élite non sono) possono dare fastidio ma non mettono in crisi nessuno”.
Era il 6 agosto di due anni fa quando su Avvenire è apparso il primo articolo di una lunghissima serie, riguardante proprio l’utero in affitto: un’inchiesta corposa, quando ancora nessuno ne scriveva in Italia se non per riferire qualche singolo episodio del tutto avulso dal contesto. Su Avvenire si raccontava dello sfruttamento delle donne indiane e di quelle ucraine, così come di situazioni meno conosciute, come il Guatemala. Si spiegava cosa fossero i contratti di surroga, e si riferiva delle proteste di ambienti femministi ferocemente contrari alla pratica, ad esempio in Svezia.
Ma l’argomento non ha trovato mai cittadinanza nei grandi giornali e nella stampa, non è diventato oggetto di confronto e riflessione pubblica finché a parlarne non è stata, come giustamente l’ha definita la Roccella, l’élite legittimata a farlo, e cioè voci dalla sinistra. E anche una volta scoppiato il confronto nei media – dalla carta stampata a programmi radiofonici e televisivi è diventato l’argomento del giorno – il contributo dei cattolici è tuttora sostanzialmente ignorato: si dà per scontata la loro posizione contraria alla surroga, invitando al massimo qualche personaggio che ci si aspetta dica cose riconoscibilmente cattoliche e porti argomenti che non possono valere per i non credenti. Un atto dovuto che già si sa non aggiungerà niente al confronto vero, quello su cui ci si misura con argomenti validi per tutti.
Lo si è visto con chiarezza sul Corriere della Sera – la voce del padrone – che dopo l’appello di “Se non ora quando libere”, ha dato spazio a opinioni diverse sull’utero in affitto, tutte rigorosamente riconducibili al salotto buono della sinistra tranne in un caso, quando a dire la sua è stata chiamata una giovane accademica che si è espressa con un linguaggio valoriale che poteva trovare ascolto solamente presso un pubblico di credenti. Come a dire: noi (il salotto buono del Corriere) il minimo sindacale l’abbiamo fatto, la donna cattolica l’abbiamo interpellata, lei le cose cattoliche le ha dette, adesso possiamo continuare a discutere delle cose serie.
Non vale solo per l’utero in affitto: i cattolici non sono mai ammessi nel dibattito pubblico, se non quando si esprimono con lessico ed argomentazioni immediatamente riconoscibili dai cattolici stessi. Si accettano al massimo pubbliche testimonianze personali, sottintendendo che si tratta, appunto, di esperienze soggettive che si è liberi di vivere a casa propria, nel chiuso delle proprie comunità, e proprio perché confinate nel privato non hanno alcun peso nell’agorà.
Lo spazio pubblico del dibattito culturale è precluso ai cattolici, liberi di esprimersi nei sottoscala, nelle sagrestie, tuttalpiù dai sagrati delle chiese, liberi di rivolgersi a chi crede e pensa come loro, con toni e lessico confacenti. Insomma: possiamo pregare e parlarci fra noi, ma non ci è consentito scendere nelle piazze e misurarci con gli altri. E guai se questi credenti pretendono pure di far politica, un’attività che in quanto tale rende personaggio pubblico chi la pratica: so di lettere scritte a Repubblica da parte di politici di IDEA, sull’utero in affitto, mai pubblicate. E non è la prima volta.
Il dibattito culturale deve restare appannaggio dell’élite della sinistra, e pazienza se al tempo della rottamazione per sentire qualcosa di spessore da quell’area tocca comunque ricorrere ai bei nomi del tempo che fu: ci scuseranno le signore per la citazione, ma Sylviane Agacinski, che ha dato il via al no femminista all’utero in affitto, è del 1945, mentre Luisa Muraro, capofila delle italiane, è nata nel 1940, e Chiara Saraceno, che ha firmato l’appello opposto, è classe 1941. Del Ministro Boschi potrebbero essere le mamme.
Ma torniamo al punto fondamentale: i cattolici non possono essere cittadini, ma restare solo credenti, a margine della cosa pubblica. Non a caso un grande cardinale, che la scena pubblica l’ha dominata, ammoniva, con cognizione di causa: meglio essere contestati che irrilevanti. Perché capiva che quella dell’irrilevanza è la condizione in cui i cattolici vengono continuamente respinti e schiacciati. Che poi ci siano cattolici che teorizzano che questa sia la giusta modalità di presenza – la fede confinata nel privato e un comportamento personale moralmente retto come unica espressione pubblica – è un altro argomento, che merita una discussione a parte.