Questioni d’avidità

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Questioni d’avidità

04 Agosto 2011

Quell’affermazione di Riccardo aveva innestato nella mia testa un altro dubbio: era forse possibile che l’assessore avesse ucciso il mafioso per arraffare la maggior parte del malloppo?

Durante il breve tragitto dal covo a casa mia, formulai e scartai come minimo quattro possibili ipotesi, ma nessuna mi sembrava davvero realistica.

Ripercorrere mentalmente i fatti non mi aiutava, semmai mi confondeva.

Una cosa che speravo di ricordarmi quella sera, era chiedere a Rita le fotografie della scena del delitto di Massimiliano e quella del suicidio dell’assessore.

Aprii la porta di casa: la pace era ancora più intensa. La Dirigente non era ancora tornata e c’eravamo solo io e il bell’addormentato.

Essendo le cinque meno qualcosa, pensai di fare un tentativo con la Calcagni: nella peggiore delle ipotesi mi ci avrebbe mandato.

Venne a rispondermi come al solito la filippina e con l’italiano di sua invenzione mi disse che la signora era disponibile per l’ora richiesta, mi fu dato l’indirizzo e ci lasciammo con quegli accordi. Il fatto che a poche ore dalla morte del marito fosse pronta a farsi intervistare la diceva davvero lunga.

Avevo anche intenzione di prepararmi le domande che le avrei fatto. Bisognava che mi presentassi lì con le idee chiare e che, fra una domanda e l’altra, non avesse il tempo di pensare prima di rispondere.

Più veloce era il colloquio prima avrei ricevuto delle risposte oneste.

Nel caso qualche risposta non mi fosse sembrata sincera avrei dovuto farle qualche trabocchetto. Solite tecniche da avvocato o giornalista.

La zona in cui si trovava casa Calcagni era quella chic di Bari, quella che si affaccia sul lungomare Di Crollalanza.

Quando bussai al campanello, che produsse un fievole suono simile a quello di un carillon, la filippina mi venne ad aprire: doveva essere la stessa, famigerata, filippina del telefono.

Fui fatto accomodare nel salone e potei ammirare i mobili e le suppellettili dal gusto squisito che gremivano l’ambiente. Appesi alle pareti immancabili quadri di Picinni. Dovizia di luce e colori.

Non dovetti aspettare molto: come si conviene, la signora mi aveva fatto attendere solo il tempo necessario perché ammirassi la crapuloneria del suo regno.

Mi alzai e lei mi porse la mano sobriamente ingioiellata.

«Buongiorno, signora. Condoglianze».

«Grazie».

Mi indicò il divano con un accogliente gesto della mano. I divani erano due, disposti a formare un angolo retto. Io mi sistemai su quello addossato al muro, lei su quello sotto la finestra, in modo da essere vicini.

«Signora Calcagni, innanzitutto la ringrazio per l’intervista. Mi rendo conto che oggi deve essere una giornata delicata per lei e non voglio assolutamente rubarle troppo tempo. Se per lei va bene possiamo incominciare subito».

«Sì, sarebbe meglio».

«Per cominciare vorrei chiederle qualcosa di personale. Com’era suo marito in privato? Quali erano i suoi gusti?».

«Era una persona molto colta e spiritosa. Era molto espansivo con una sensibilità fuori misura. Adorava scherzare e guardare vecchi film in bianco e nero».

«Che genere di letture coltivava?».

«Le opere teatrali. Amava Shakespeare, Brecht e Pirandello».

«Negli ultimi tempi suo marito aveva abbandonato molte attività che prima conduceva abitualmente. Si era, insomma, un po’ ritirato dalla vita civica. Saprebbe dirmene il motivo?».

«No, a mio marito piaceva isolarsi».

«Mi era sembrato di capire che invece era molto espansivo» e pensai che un politico solo è un politico fottuto.

«Sì, ma negli ultimi tempi aveva limitato le sue uscite».

«E come mai questo cambiamento?».

«No».

«Crede che qualcuno sarà in grado di sostituirlo?».

«Non vedo perché no».

«Vista la quantità di cose che faceva, il ruolo che rivestiva all’interno del partito, la credibilità di cui godeva… insomma, non potremmo dire che forse era un uomo insostituibile?».

Avevo capito che questo era il suo punto debole. Infatti, per chi li sapeva leggere, i suoi piccoli gesti manifestavano un certo disagio.

«Non è sempre tutt’oro quello che luccica. Non era solo un assiduo lavoratore, anche lui si concedeva qualche vacanza».

Lei portò l’indice alla bocca e poi indicò con lo stesso dito il registratore che avevo messo sul tavolino lì vicino per registrare la conversazione.

La accontentai: tanto avevo un altro registratore acceso nella tasca interna della giacca.

«Mio marito non era quello stinco di santo che si dice. Scommetto che quei poco di buono degli amici suoi faranno a gara per dire le cose peggiori di lui, perciò, prima che inquinino la verità, le rivelerò io come stanno le cose: s’incontrava spesso con qualcuno e lo faceva quando andava a teatro. Negli ultimi mesi ci andava spessissimo e sono sicura che era per questo motivo. Una sera ritornò più tardi del solito e quando gli chiesi il perché lui mi disse che si era fermato a parlare con degli amici che aveva incontrato. Allora, non essendo convinta, gli chiesi cosa avesse visto e lui mi disse “La locandiera”. Quella sera avevano messo in scena “Il berretto a sonagli”: avevo chiamato il teatro per verificare quello che mi aveva detto e mi hanno detto di essersi dimenticati di cambiare la locandina».

Evidentemente, mi dissi, era passato dal teatro solo per vedere la locandina e poi andarsi a imboscare con l’amante.

«Mi spiace molto signora. È per questo che ieri l’aveva lasciato?».

«Vedo che volano in fretta le notizie in questa città. Poco importa. Anzi, le comunico che sto per risposarmi».

«Congratulazioni. Si può sapere il nome del fortunato?».

«Per ora le posso solo dire che non è di Bari. Domani sarà in città, però. Ho intenzione di ricominciare e non m’interessa di cosa possano pensare gli altri».

«Sono contento per lei. Ma è possibile conoscerlo?».

«Se vuole può tornare domani: darò una festicciola per la sua venuta. So che una festa dopo un suicidio è di cattivo gusto, ma tenere il lutto in questo caso sarebbe ancor più di cattivo gusto».

«La ringrazio, accetto molto volentieri l’invito».

(Fine capitolo 4)