Questo 11 settembre è del Generale Petraeus

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Questo 11 settembre è del Generale Petraeus

31 Agosto 2007

Grande attesa per le testimonianze al congresso del Generale Petraeus e di Ryan Crocker, rispettivamente comandante in capo e ambasciatore degli Stati Uniti in Iraq, che dovrebbero avere luogo il prossimo undici settembre. La scelta della data, secondo il portavoce della Casa Bianca, Gordon Johndroe, è dovuta solo al fitto calendario del congresso di quella settimana, che sarà chiuso il 13 e 14 per il capodanno ebraico. La testimonianza precederà la consegna da parte della Casa Bianca del report sullo stato dell’arte della stabilizzazione in Iraq il 15 settembre.

Con molta probabilità, la Casa Bianca richiederà al congresso un ulteriore finanziamento di cinquanta miliardi di dollari per le operazioni militari, con l’intenzione di mantenere il numero attuale di truppe fino alla primavera del 2008. Nel precedente dibattito, il Congresso a maggioranza democratica ha cercato, senza successo, di far pressione per il ritiro delle truppe. Ma con l’invio di ventimila soldati e nuove strategie, sul campo si sono verificati dei progressi. Gli attacchi subiti dalle forze della coalizione sono al numero più basso dall’agosto 2006, la violenza a Bagdad è diminuita considerevolmente (nella capitale le vittime civili sono diminuite del cinquanta per cento), mentre una serie di operazioni militari ha costretto gli estremisti sciiti e al Qaeda a muoversi in aree sempre più ristrette.

Di questi passi in avanti riferirà senz’altro il Generale Petreaus nel corso della sua audizione, per quanto ne abbia già avuto prova diretta la dozzina di congressmen, tra deputati e senatori, recatasi in Iraq per valutare personalmente la situazione prima del dibattito. La divergenze d’opinione non sono così nette tra i due partiti: molti democratici ammettono che la nuova strategia di Bush, con l’aumento di ventimila soldati, sta dando i suoi frutti, da Hillary Clinton (“stiamo cambiando tattica in Iraq in alcune aree, in particolare in Al Anbar, sta funzionando”), al senatore Richard Durbin dell’Illinois (“Più truppe americane hanno portato più pace in Iraq”). In particolare, Brian Baird della camera dei Rappresentanti, che aveva votato contro la guerra, dopo una visita alle truppe in Iraq ha rivisto la sua posizione, sostenendo che gli americani hanno ineludibili responsabilità nei confronti degli iracheni, oltre che un interesse strategico affinchè le cose funzionino, e che perciò i soldati devono rimanere almeno fino all’inizio del prossimo anno per poi gradualmente ritirarsi.

Sorprende, tuttavia, il senatore repubblicano della Virginia John Warner, il quale ha deciso di prendere in considerazione la possibilità di dare il suo supporto all’iniziativa legislativa dei democratici per il ritiro delle truppe, qualora Bush dovesse rifiutarsi di presentare la scaletta con le date del ritiro. Come compromesso, Warner propone di far rientrare cinquemila soldati entro la fine dell’anno, per placare chi sta perdendo pazienza e dare un messaggio al governo iracheno perché diventi più indipendente nel garantire la sicurezza. Il messaggio, però, è stato colto dal Presidente iraniano Ahmadinejad, che martedì scorso, riaffermando l’intenzione di continuare con il programma nucleare, si è detto pronto a “colmare il vuoto” di sicurezza nel momento in cui gli americani lasceranno l’Iraq. Era stato proprio Warner, dopo la sua visita in Iraq, a dichiarare insieme al collega democratico Carl Levin, che la nuova strategia sembrava produrre effetti positivi e che l’Iran è sempre più una minaccia.

La frustrazione di Warner, come quella di numerosi democratici, è dovuta al governo del premier al Maliki, giudicato un fallimento. Non potendo attaccare la professionalità sul campo dell’esercito americano, sono le difficoltà incontrate da Maliki nel processo di riconciliazione tra le diverse fazioni irachene il nuovo capo espiatorio degli oppositori della guerra in Iraq. Maliki sta anche perdendo consensi in Iraq, in particolare dopo gli scontri tra militanti sciiti e forze di sicurezza nella città di Kerbala, che hanno provocato ventisei vittime e costretto all’evacuazione di un milione di pellegrini con la sospensione di una delle feste religiose più importanti dell’Islam sciita. Per un Primo Ministro sciita non riuscire a mantenere l’ordine in una città sciita non rappresenta certo un beneficio per la sua immagine. Pur avendo ammesso di essere nel complesso insoddisfatto di Maliki, Bush ha sottolineato che il governo iracheno rappresenta ancora uno scudo nella regione contro le forze dell’estremismo islamico. Inoltre, se il parlamento iracheno decidesse di toglierli la fiducia, non potrebbe nominarne il successore direttamente. Per costituzione il Presidente Jalal Talabani dovrebbe chiedere al maggiore gruppo parlamentare, in questo caso l’Alleanza di Unità Irachena Fondamentalista, di scegliere il nuovo Primo Ministro. La scelta ricadrebbe tra il Partito Islamico di Maliki e il Consiglio Iracheno Islamico Supremo di Abdul Aziz al-Hakim, che è molto più vicino agli ayatollah iraniani, senza contare che ci vorranno almeno sei mesi per mettere insieme un nuovo governo.

Le dichiarazioni di Hillary Clinton e Carl Levin, in particolare, hanno infiammato il Primo Ministro, cosciente dell’agenda politica dei suo critici, e ha chiesto ai due senatori di non trattare l’Iraq come fosse un loro “villaggio” , accusandoli di comportarsi come “colonialisti”. Maliki controbatte anche con i fatti: annuncia pochi giorni dopo che il Consiglio Presidenziale ha raggiunto degli accordi con il Vice Presidente Tariq al-Hashimi del Partito Islamico Iracheno, che prevedono la liberazione di detenuti arabi sunniti, la possibilità per gli ex membri del partito Baath di lavorare nel governo e l’organizzazione delle elezioni provinciali. Rimangono molti ostacoli alla riconciliazione nazionale e all’indipendenza irachena, ma togliere il potere a Maliki in un Iraq ancora fortemente instabile avrebbe gravi ripercussioni. Non sarà comunque una decisione del congresso americano bensì del parlamento iracheno.