Ragazzi, è venuta l’ora di mollare Narciso (e il postmoderno)
11 Dicembre 2011
di Luca Negri
La modernità rinascimentale, illuminista e infine marxista, elesse Prometeo come nume tutelare. Tentò così l’assalto al cielo, la rivolta orgogliosa, l’impresa eroica e faustiana di trasformare il mondo e la storia. La postmodernità, molto più pigra, disillusa e relativista, preferisce affidarsi a Narciso. Contempla la sua pretesa bellezza, il suo riflesso perfetto, e si concentra con tale foga in questo onanismo onirico da non avvertire più nessun brivido di trascendenza, nemmeno secolarizzata, nessun sentimento del tragico. La civiltà contemporanea, in fondo, sente di bastare a se stessa, decide di non sporcarsi veramente col mondo e la storia, con l’ascolto del passato e con la speranza del futuro.
Narciso, puer aeternus sempre sognante, non conosce speranza né paura, si sottrae alla vera devozione e alla sensualità, al dovere di generare. Poiché un certo senso del sacro è inscindibile dalla condizione umana e noi uomini del terzo millennio abbiamo deciso di far tutto come se Dio non esistesse, ci vediamo comunque costretti ad edificare idoli. Così la nostra civiltà torna ad essere inconsapevolmente pagana, schiava di culti che neanche ammettiamo di praticare.
Questo panorama desertico popolato da vitelli d’oro in cui fondiamo tutte le nostre ricchezze ci viene svelato acutamente dall’ultimo saggio di Pierangelo Sequeri, Contro gli idoli postmoderni (Lindau). Il nome dell’autore è noto soprattutto agli esperti di musica sacra contemporanea; ma chi non lo ha mai sentito nominare, se ha frequentato una chiesa negli ultimi trent’anni, sa cantare qualche sua canzone (come minimo Symbolum ’77, spesso chiamata con il suo primo verso: “Tu sei la mia vita, altro io non ho”). Sequeri però è anche ordinario di Teologia Fondamentale, docente di Estetica del Sacro presso l’Accademia di Brera e prezioso saggista. Prezioso anche per chi non vorrebbe leggere nulla che odori d’incenso, meno che mai un’opera scritta da un sacerdote.
Si muove nella terra di confine fra religione, estetica e antropologia culturale, non scrive opere confessionali o dogmatiche e infatti cita spesso autori contemporanei “laici” come Bauman e Galimberti. Non intende quindi rivolgersi ai soli compagni di fede. Se si tratta di “smascherare l’incantesimo della cultura nichilista che pretende di rappresentarci”, tutti hanno un lavoro da fare, non solo i credenti. “Siamo in regime di dialogo permanente da un bel po’”, la città brucia mentre discutiamo su come spegnere l’incendio; sarebbe ora di reagire, di opporsi alle “idolatrie culturali postmoderne”, perlomeno alle quattro principali, quelle utili a “un vasto indotto di superstizione”: fissazione per la giovinezza, ossessione della crescita, “irreligione della secolarizzazione”, totalitarismo della comunicazione.
“Invenzione postbellica”, futurista e consumista, l’adolescenza succhia sangue all’infanzia, alla maturità e alla vecchiaia. Trasformiamo i bambini in adolescenti precoci e cerchiamo di rimanere giovani, di non dimostrare gli anni che portiamo. L’adolescenza, “accumulatore di potenza in folle” deve invece tornare ad essere transitoria come vuole la sua natura. Nuova dignità religiosa e civile va data ai riti di passaggio fra le età dell’uomo. I giovani d’oggi sono disorientati perché privati di ogni seria e sentita forma di iniziazione; sono i primi a trovarsi in questa situazione dopo millenni di civiltà. Probabilmente su questo terreno sono pesanti le responsabilità delle lezioni di catechismo e delle famiglie cristiane: quanti ragazzi sono preparati adeguatamente a Comunione e Cresima, ultimi residui di iniziazione sacra rimasta in Occidente?
La politica invece può fare qualcosa sul piano secolare, ad esempio non naufragare totalmente nell’”assoggettamento culturale alla logica finanziaria della crescita”. Sottolineiamo la parola “finanziaria”, per intendere che va tutelata l’economia reale; questa è la decrescita minima di cui abbiamo bisogno. “L’amministrazione della polis” va liberata dallo stato di soggezione che la rende ostaggio della circolazione di denaro.
Mentre la secolarizzazione irreligiosa mostra tutte le sue crepe, la sua incapacità nel gestire tensioni e cambiamenti epocali, il cristianesimo si dà disponibile a collaborare con chi vuole porre seriamente “la questione dell’umanesimo etico come principio di ricomposizione del legame sociale”. Sta ai poteri politici, o a quello che ne resta, e a quelli economici, rispondere a questa chiamata.
I singoli individui, dal canto loro, possono già agire sottraendosi alla sfera ormai totalitaria della comunicazione. Rifugiarsi ogni tanto nel silenzio, riservare qualcosa al mistero, evitare di pubblicizzare tutto della propria vita, rendersi invisibili per un po’ all’occhio del Grande Fratello che accendiamo noi stessi solo connettendoci alla rete. Soprattutto i giovani “intrappolati da un Super-Io progressista o da un tradizionalismo radical-chic” dovrebbero fuggire metaforicamente in montagna come i loro nonni partigiani. Non essere sempre on line è una minima forma di resistenza. Non aver niente da dire e non aspettarsi da altri niente di detto è la condizione migliore per ascoltare veramente qualcosa. Per farla finita con Narciso. E tornare a Prometeo, se non a Cristo; per la Chiesa il titano che rubò il fuoco dal cielo è un avversario più nobile.