“Raul aprirà agli Usa perché l’economia è al collasso”

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“Raul aprirà agli Usa perché l’economia è al collasso”

26 Luglio 2008

L’uguaglianza a Cuba non è più quella di una volta. Lo ha dichiarato Raul Castro, il 12 luglio scorso di fronte all’Assemblea Nazionale, affermando, di fatto, che l’egualitarismo è morto. Riprendendo temi e concetti cari alla sinistra democratica europea, ha ammesso che l’eguaglianza degli uomini non è negli esiti, ma nelle condizioni di partenza: non eguaglianza di salari, ma pari opportunità. E’ difficile capire fino a che punto si possa spingere questo cambiamento dottrinario, una volta calato nella pratica della dittatura cubana. Dopo mezzo secolo di regime “fidelista”, il nuovo Castro, fratello del vecchio, sta concedendo qualche spiraglio di apertura, se non altro nelle libertà economiche. Cos’è questa nuova fase della storia cubana?  

Carlos Franqui ci può aiutare a comprenderla. Franqui è considerato il “nonno” dei dissidenti cubani. Come molti altri esuli (vive a Portorico) ha partecipato alla rivoluzione e poi ha rotto con il regime dopo la sua involuzione totalitaria. Ma dire “partecipato alla rivoluzione”, nel caso di Franqui, non rende l’idea. Ha aderito al Movimento 26 Luglio di Fidel Castro, co-dirigendo il giornale clandestino “Revolucion”. Arrestato dalla polizia e torturato, è uscito una prima volta da Cuba per sfuggire alle grinfie del regime autoritario di Batista, rifugiandosi in Messico e negli Stati Uniti. Poi, nella fase culminante della rivoluzione castrista, è tornato in patria, dove ha diretto la radio clandestina Radio Rebelde, oltre a riprendere la direzione del quotidiano Revolucion. Vinta la rivoluzione nel 1959, Carlos Franqui, intellettuale, è diventato il biglietto da visita della rivoluzione nei migliori salotti della sinistra europea. Nei primi anni del nuovo regime ha messo in piedi una rete di amici di Cuba del calibro di Pablo Picasso, Mirò, Calder, Jean Paul Sartre, Simone de Beauvoir, Julio Cortazar. 

La rottura con il totalitarismo dell’Avana, però, è stata inevitabile. Il divorzio si è celebrato ufficialmente nel 1968, causato dal suo dissenso nei confronti dell’invasione sovietica della Cecoslovacchia. Ma è avvenuto dopo anni di crisi e di più o meno velate persecuzioni. Da allora ad oggi, Carlos Franqui, per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla repressione a Cuba, ha continuato a rivolgersi agli intellettuali della sinistra europea. Che però non lo ascoltano più come prima. Quando lo abbiamo incontrato, a Senago, in occasione del Festival della Modernità organizzato dalla casa editrice Spirali, gli abbiamo mostrato due versioni di una vecchia foto del 1959: una lo ritrae al fianco di Castro, nell’altra, identica, la sua immagine scompare. “Sono solo contento di non apparire più in queste foto”, commenta con sicurezza. “Sono le tipiche tecniche di informazione del regime sovietico. Si figuri che quando sono andato in Russia, i ragazzi non sapevano nemmeno chi fosse Trotzkij: era semplicemente scomparso dalla storia”. 

Eppure resta un dubbio tra gli storici: Fidel Castro era comunista anche prima del 1959 e si preparava a mettere in piedi una dittatura? O fu costretto dalle circostanze (soprattutto dal conflitto con gli Usa) a sopprimere la democrazia?
I principi che guidavano la rivoluzione erano il rovesciamento della giunta militare, la restaurazione della Costituzione del 1940 e libere elezioni. Il popolo cubano voleva ristabilire la democrazia, che aveva perso dopo il golpe di Batista del 1952. Nessuno parlava di comunismo, fatta eccezione dei comunisti. Che erano una minoranza. Fidel Castro, all’epoca della guerriglia, parlava da conservatore. Pubblicamente era contro la nazionalizzazione delle aziende. Eravamo dell’idea che fosse molto più a “destra” di quanto non lo fossimo noialtri del movimento rivoluzionario. Comunque anche le frange più di sinistra erano favorevoli a una redistribuzione del reddito, alla riforma agraria (per frammentare i latifondi), si volevano attenuare le differenze sociali, ma non c’era nulla che facesse presagire una rivoluzione di tipo comunista. La corrispondenza di Fidel Castro dal carcere, tuttavia, mostra una realtà ben diversa. In una lettera segreta, indirizzata alla madre di Alina Fernandez (attualmente dissidente ed esule a Miami), Fidel parla già di una rivoluzione comunista, di Lenin e del regime sovietico. Quindi il suo progetto era quello. Non lo sapeva nessuno di noi, lui non lo diceva mai. E’ una caratteristica di Castro: pensa una cosa, ne dice un’altra e ne fa una terza. C’erano dei sintomi: la promozione a comandante del fratello Raul e il fatto di portare in palmo di mano Che Guevara, il più filo-sovietico di tutti, erano delle prime mosse per la realizzazione del suo progetto. 

La dittatura nacque sulla spinta della tensione con gli Stati Uniti, o il progetto era già avanzato?
Nel 1960, Castro ha incaricato Che Guevara di nazionalizzare le raffinerie statunitensi e britanniche. Fidel diceva che queste sabotavano l’economia nazionale, rifiutandosi di raffinare il petrolio venezuelano. Ma, dopo averle requisite, Guevara ha ammesso che il petrolio che quelle raffinerie avrebbero dovuto raffinare non era venezuelano, ma russo. E che non erano tecnicamente in grado di raffinarlo. Quindi si è trattato di un pretesto, che ha dato il via ad una serie di accuse e contro-accuse. Una crisi che il regime di Fidel Castro ha fatto apparire agli occhi del mondo come la lotta di un piccolo Davide contro il Golia imperialista. Quando ho scoperto tutte queste cose, Fidel Castro ha dovuto darmi ragione. E lo ammise anche in un’intervista rilasciata alla televisione spagnola: “Cuba è comunista per un atto della mia volontà e gli Stati Uniti sono solo dei complici”. Castro voleva diventare un protagonista internazionale. Ed essendo machiavellico, ha capito che l’unico modo per balzare in cima all’attenzione del mondo era sfidare gli Stati Uniti. E che per poter sfidare gli Usa serviva l’appoggio dell’Unione Sovietica. Già allora c’è stata un forte attrito tra il movimento clandestino e Fidel: si comportava da “caudillo”, non voleva consultare nessuno.

Lei invitò a Cuba tutti i protagonisti della cultura di sinistra europea, per promuoverne la causa. Perché arrivò alla rottura con il regime?
In un certo senso, ero un uomo di cultura anche prima della rivoluzione. Quando ho visto che il conflitto con gli Stati Uniti era inevitabile e che i sovietici iniziavano a prendere piede a Cuba, sono andato a cercare l’appoggio degli intellettuali in America Latina e in Europa per sensibilizzarli alla causa cubana. Erano tutti intellettuali di sinistra, ma non erano legati all’Urss. In Italia sono venuto a trovare Giangiacomo Feltrinelli e Valerio Riva, ma a quell’epoca Feltrinelli era l’editore che aveva pubblicato Pasternak, voce della dissidenza sovietica. A Parigi gli intellettuali erano in rotta con il Partito Comunista. Pablo Picasso se n’era andato dal Partito nel 1956, per protestare contro l’invasione sovietica dell’Ungheria. André Breton era già in conflitto con il Partito da molto tempo. Io sono andato a coinvolgere questi personaggi perché erano indipendenti. Ad un certo momento sono stato accusato di aver reso popolare la rivoluzione comunista nel mondo. Non credo sia corretto. Io non ho fatto la rivoluzione per Fidel Castro. L’ho fatta per cambiare Cuba. E quando ho visto che il risultato era una nuova dittatura, sono entrato in conflitto con il nuovo regime. Io considero una grande tragedia quella di aver partecipato alla rovina di Cuba. A partire dal 1961 ho realizzato che quella non era una vera rivoluzione del popolo, ma una dittatura comunista, dove il popolo è oppresso e ridotto in miseria. 

Lei ha sostenuto negli anni scorsi una campagna di sensibilizzazione degli intellettuali sulle condizioni a Cuba. Adesso, secondo Lei, il mito della rivoluzione sopravvive in Europa?
Dopo quello che è accaduto, con la Ola Represiva (l’ondata di arresti di intellettuali dissidenti nel 2003 e la fucilazione di 3 ragazzi che cercavano di fuggire dall’isola dopo aver sequestrato un battello turistico), anche intellettuali simpatizzanti come José Saramago hanno incominciato a prendere le distanze dal regime. Ma non è solo la repressione a spegnere il mito. Almeno da quindici anni a questa parte, il peggior capitalismo mondiale è andato a fare affari con Fidel Castro. E’ lo stesso fenomeno che vediamo in Cina. Che cosa ci insegna la Cina? Mao diceva che il proletariato era la vera classe universale. Si era sbagliato: il vero internazionalismo è quello capitalista. Il capitalismo non ha patria, la sua terra sono i soldi. 

Lei ha denunciato in passato un vero e proprio stato di apartheid a Cuba, con i cubani che non potevano accedere agli alberghi di lusso e alle spiagge turistiche. Adesso pare che Raul abbia posto fine a questi divieti…
Noi abbiamo lottato molto contro l’apartheid nelle spiagge, nei ristoranti e negli alberghi. Era incredibile che un cubano residente all’estero, se arrivava a Cuba da turista, non avrebbe potuto invitare un suo parente residente a Cuba a mangiare allo stesso tavolo. Ora Raul Castro ha posto formalmente fine all’apartheid. Ma nella realtà cosa accade? Che i cubani possono comprare un computer, o dormire in albergo di lusso, ma non hanno abbastanza soldi per farlo. E’ una riforma che, nella realtà quotidiana, non funziona. Però, almeno, Raul Castro ha riconosciuto che l’isola è economicamente distrutta. L’anno scorso ha dovuto importare beni alimentari per un valore di 15 miliardi di dollari. L’isola produce solo il 15% di quello che consuma. Niente a che vedere con la situazione precedente, sino al primo decennio del regime, quando a Cuba si produceva l’80% del fabbisogno interno. Negli anni ‘70 il sistema economico voluto da Castro ha distrutto l’industria dello zucchero, il riso, il caffè, tutti beni che ora devono essere importati. 

Se Raul Castro ha realizzato la devastazione del sistema socialista a Cuba, si può dire che abbia intenzione di cambiarlo?
Raul Castro, anni fa, aveva dichiarato che il problema di Cuba non fosse l’imperialismo ma la fame. Fidel Castro ha sempre detto e fatto l’opposto. Nel 1976 Fidel ha dichiarato ai colonnelli portoghesi che, quando la rivoluzione entra in crisi, il potere si mantiene con il terrore e la fame. E così ha sempre fatto. Raul Castro, al contrario ha realizzato di avere una sola via d’uscita per far uscire Cuba dalla fame: ristabilire le relazioni con gli Stati Uniti. E sono sicuro che lo farà. A tutti i livelli, la “cupola” del regime è convinta che l’economia sia al collasso. Parecchi hanno paura di perdere il potere. E poi hanno fatto un sondaggio tra i membri della gioventù comunista su come vogliono che sia il futuro. La risposta della maggioranza di essi è stata: libertà totale e cambiamento profondo del sistema. E la gioventù comunista è quella che è stata meno corrotta dal regime. Sono sicuro che il ricambio generazionale porterà a grandi cambiamenti. In più sono convinto di una cosa: se Barack Obama vincerà le elezioni statunitensi e andrà a Cuba come ha promesso, sarà un’altra spallata. Oggi la popolazione di Cuba è al 66% nera e meticcia. I cubani neri sono ancora molto emarginati e c’è la possibilità concreta che vedano come un liberatore un presidente nero degli Stati Uniti. Già hanno festeggiato la sua nomination alla corsa presidenziale. E non è un caso che Fidel Castro abbia iniziato a scrivere critiche contro il candidato democratico.