Reagan, il trionfo del conservatorismo Usa e il tramonto dei valori borghesi

LOCCIDENTALE_800x1600
LOCCIDENTALE_800x1600
Dona oggi

Fai una donazione!

Gli articoli dell’Occidentale sono liberi perché vogliamo che li leggano tante persone. Ma scriverli, verificarli e pubblicarli ha un costo. Se hai a cuore un’informazione approfondita e accurata puoi darci una mano facendo una libera donazione da sostenitore online. Più saranno le donazioni verso l’Occidentale, più reportage e commenti potremo pubblicare.

Reagan, il trionfo del conservatorismo Usa e il tramonto dei valori borghesi

09 Febbraio 2011

Nel panthéon del conservatorismo americano alla figura di Ronald Reagan spetta un ruolo di primissimo piano. Nessuno meglio di lui ha saputo rappresentare i valori profondi della destra statunitense. E nessuno meglio di lui ha saputo trasformare l’America in maniera così radicale, restituendole forza economica, capacità innovativa, supremazia mondiale e fiducia in se stessa, dopo un periodo di gravissima crisi. Ma se Reagan è stato il campione indiscusso del conservatorismo politico, i valori proposti dalla sua politica non hanno avuto nessuna presa sulla società. Difatti negli anni del reaganismo – gli anni Ottanta – si è verificato, inaspettatamente, il definitivo tramonto dei valori borghesi statunitensi.

Nel bene o nel male la figura di Ronald Reagan ha dominato gli anni Ottanta. Il suo mito, impasto di conservatorismo politico e pragmatismo sociale, è servito per ridurre l’inflazione, rilanciare l’economia, allontanare lo scontro nucleare e al tempo stesso battere il comunismo. Gli anni di Reagan vedono innalzarsi la stella di Bill Gates e il diffondersi del personal computer. Sono l’epoca della rivoluzione informatica, della globalizzazione economica, della ristrutturazione del sistema capitalistico americano, a cominciare da Hollywood, del trionfo del postmodernismo nel mondo universitario e dell’affermarsi a livello di massa di un modello culturale e valoriale veicolato dall’emittente MTV e delle serie televisive  “Dallas” e “Dynasty”.

Con la presidenza Reagan si esce definitivamente dalla guerra fredda. Reagan riceve in eredità un fardello pesantissimo, stracolmo di infezioni contratte negli anni Settanta: la débacle del Vietnam, lo scandalo Watergate, oltre a stagflazione e inflazione, acuite dalla crisi petrolifera.

La recessione economica, che tra il 1974 e il 1975 raggiunge la vetta più dura, riporta l’orologio degli americani ai tempi della Grande Depressione. Basta solo ricordare un dato: nella primavera del 1975 i disoccupati sono il 9%, come nel 1941. A questo clima di decomposizione sociale si debbono aggiungere le delusioni provocate dalla presidenza del democratico Jimmy Carter. Nel dicembre del 1979 i sovietici invadono l’Afghanistan. La carriera politica di Carter può considerarsi conclusa. Infatti le elezioni che si tengono un anno dopo, assegnano a Reagan una devastante vittoria, con il 51% contro il 41%, con ben 44 Stati andati ai repubblicani. Un massacro politico per i democratici.

Il trionfatore, Ronald Reagan, viene dall’Illinois. La sua carriera si è svolta però a Hollywood, nello show business. Partito come attore, ha saputo scalare la piramide sociale, sino a diventare Governatore della California (nel 1966). Reagan di anno in anno si afferma come stella nazionale dei repubblicani. Grande oratore, per uscire dai fantasmi di Nixon il partito si è affidato a lui: e non li ha delusi. Nella sua formazione culturale l’ottimismo cristiano è una caratteristica determinante, che non lo abbandonerà mai, dalla gioventù alla vecchiaia. Con lui alla guida dell’impero americano assistiamo alla “Reaganomics”, politica fiscale anti-keynesiana, vicina al monetarismo di Milton Friedman. Bloccata l’inflazione, la crescita economica decolla vertiginosamente.

Il segnale che si sta cambiando registro arriva nel braccio di ferro con i sindacati dei controllori di volo, tutti dipendenti federali. Reagan li licenzia in tronco. È  un atto di significativo effetto mediatico. I critici della sua politica parlano di assalto frontale al “welfare state” e di ritorno al “darwinismo sociale”. Di fatto le linee adottate da Reagan  rimettono in moto l’economia, spingono il consumismo e aprono una consistente “deregulation” del sistema.

Wall Street è il motore della “Reaganomics”. Anche qui i critici sono molto severi. Gordon Gekko, a cui presta il volto lo straordinario Michael Douglas, protagonista di “Wall Street” (1987) di Oliver Stone, è l’icona della rapacità e dell’illegalità del sistema, che produce dollari a valanga e scandali. Wall Street, in realtà, è il propulsore della globalizzazione, non ancora di moda. Gli investimenti da capitale sono una rivoluzione silenziosa, come la rivoluzione informatica. Un dato aiuta a capire cosa sono stati gli anni Ottanta per l’America: alla fine del decennio i lavoratori americani sono più produttivi dei tedeschi del 12%, dei giapponesi del 30% e degli inglesi del 34%. Anche in politica estera il successo di Reagan è indiscutibile. Lo storico marxista Eric J. Hobsbawn così spiega la fine della guerra fredda: «finì quando una o tutte e due le superpotenze riconobbero la sinistra assurdità della corsa alle armi nucleari e quando una o entrambe accettarono di credere nel sincero desiderio dell’altra di porvi fine» (“Il Secolo breve”, 1995). Scemenza bella e buona. In realtà la guerra fredda fu vinta da Reagan con una politica estera aggressiva e con una politica militare basata sui nuovi armamenti. Nell’autunno del 1982 quasi un milione di persone si ritrovano al Central Park, a New York, per protestare contro la politica del riarmo di Reagan. Alla manifestazione ci sono l’attrice Meryl Streep, il cantante Bruce Spirngsteeng, lo studioso George F. Kennan e la futura segretario di Stato di Clinton, Madeleine Albright. La televisione trasmette, prodotto dalla ABC, il film “The Day After”  (1983), suscitando grandi emozioni. Reagan, per molti, sta trascinando l’America nel baratro nucleare. Ma la decisione di montare in  Europa i missili Pershing II, utilizzando il clima favorevole dovuto alla presenza della signora Thatcher, di Kohl e di Mitterand (pragmatico come sempre), si rivelano, insieme allo “scudo spaziale” e alle “guerre stellari”, le migliori armi della “dottrina Reagan” contro il comunismo. L’appoggio alla resistenza in Afghanistan, l’aiuto alla Polonia, l’ostilità in America Latina contro il regime marxista del Nicaragua e l’invasione di Grenada, fanno il resto.
La società americana, nel decennio dominato da Reagan, non è solo un campo fiorito. Aumentano gli homeless, la disgregazione sociale cresce, come crescono le classi disagiate nei ghetti delle grandi città e le distanze fra ceti sociali. Inoltre c’è il flagello dell’AIDS. Le invettive sulla punizione divina di Jerry Falwell, leader della Moral Majority (convinta sostenitrice di Reagan), svaniscono quando muore a causa del virus l’attore Rock Hudson, nel 1985: la disgrazia non risparmia nessuno. Sul piano culturale gli anni Ottanta vedono il trionfo del postmodernismo relativista e l’affermazione di una “cultura terapeutica”, spaziante dallo psicologismo ai deleteri cultural studies sino alla New Age. Inoltre un nuovo soggetto si affaccia alla ribalta: gli “yuppies”, ritratti nei romanzi di Jay McInerney “Le mille luci di New York” (1984) e di Bret Easton Ellis “Meno di zero” (1985), ai quali fa da sfondo il coloratissimo mondo ad uso e consumo della “MTV generation”. Il personaggio di Gordon Gekko da molti è stato scelto, come detto, quale protagonista (naturalmente nel lato peggiore) degli anni di Reagan. Ma c’è una figura dell’immaginario letterario dalla fisionomia ancora più precisa: è Patrick Bateman, protagonista del romanzo “American Psycho” di Bret Easton Ellis (1991). La raffinatezza di Patrick nei gusti culinari, nel vestirsi (dai calzini al fazzoletto da taschino, una descrizione infinita di oggetti di marca, griffati ed esclusivi), nel frequentare locali alla moda e anche nell’arte di torturare le proprie vittime, è inarrivabile. Gli “yuppies” si sono insediati nel piano più alto del potere, ma non giocano a scalare e poi spezzettare società come Gekko: violentano e squartano prostitute o accecano inermi barboni in strada.

Tirando le somme, gli anni Ottanta sembrerebbero il regno del conservatorismo propagandato da Ronald Reagan. Invece non lo sono affatto. Nel decennio reaganiano si verifica la rottura dell’ordine borghese e la vittoria della cultura radicale, causa dell’inarrestabile processo di “desocializzazione”. Abbiamo così una nazione e due culture. La prima borghese, ormai minoritaria; l’altra radicale, sempre più forte. Sarà la studiosa conservatrice Getrude Himmelfarb ad elaborare questa tesi, suscitando una vasta polemica, a processo storico ormai concluso, in “One Nation, Two Cultures” (1999).

Nell’età di Reagan si verifica la vittoria del progressismo sociale, dell’etica postmoderna e della riduzione alla dissidenza della cultura borghese, di cui lo stesso Reagan era stato l’incarnazione. Sarà Bill Clinton, nel decennio successivo, a cavalcare l’onda lunga. I conservatori più estremi toglieranno la fiducia a Bush padre, facendolo perdere al secondo mandato contro Clinton nel 1992. Ritenendolo incapace di contrastare la dilagante immoralità, in realtà se la prenderanno con l’uomo sbagliato. Era stato Reagan ad aprire le porte al nemico. L’ex attore aveva raddrizzato la schiena all’America. L’aveva riportata alla conquista del mondo. Ma non si era accorto dell’insidia rappresentata dalla cultura radicale che, nella massima lucentezza del conservatorismo si era insinuata nel tessuto sociale americano, trasformandolo prepotentemente.