Referendum anche in Italia: se fosse possibile, sarebbe auspicabile
16 Giugno 2008
Ma davvero tra il PdL e la Lega si frappongono l’Europa e il referendum irlandese? Io non lo credo affatto.
Per smentire i tanti politici e commentatori convinti che nella maggioranza vi sia un’insanabile frattura, bisogna risalire fino al termine della seconda guerra mondiale, alle origini di quell’europeismo italiano che lungi dall’avere una matrice unitaria, conobbe due fonti d’ispirazione molto diverse, se non addirittura opposte.
La prima fa capo a De Gasperi e al popolarismo mitteleuropeo. Essa, di fronte alle tragedie del ‘900, scorgeva nella tradizione della civilità europea il tessuto connettivo in grado di sanare le ferite che il secolo dei nazionalismi aveva inferto al Vecchio Continente. Si avvertiva, in questa scelta, il dramma biografico di chi come De Gasperi nel corso della sua esistenza si era trovato ad essere cittadino in differenti Stati, pur sentendosi sempre italiano; e vi era anche qualcosa dell’irripetibile esperienza dell’Impero Austroungarico nella sua fase finale: la capacità di sentirsi parte di uno stesso corpo pur nel rispetto della diversa provenienza nazionale.
Tutto questo, all’inizio non ebbe nulla a che fare con un altro europeismo che nacque, grazie ad Altiero Spinelli, nelle solitudini di Ventotene. Immaginando l’Europa da quell’isola non si pensava ad un recupero del passato, e tantomeno alla forza di una tradizione da resuscitare. L’Europa, piuttosto, era pensata come rinnovamento di un’esigenza rivoluzionaria al cospetto di altre rivoluzioni considerate fallite. Si rilegga il manifesto di Spinelli e Rossi, e si scoprirà di quanta indisponibilità nei confronti del liberalismo e della democrazia esso era nutrito. La sua Europa, almeno all’inizio rappresentava l’uscita di sicurezza dall’ideologia comunista ritenuta sconfitta, verso una nuova utopia rivoluzionaria.
Col tempo questi due europeismi si contaminarono a vicenda, soprattutto a causa delle necessità imposte dalla guerra fredda. Tale reciproca influenza ha consentito all’unità europea di progredire, e ha portato famiglie politiche in origini ostili all’idea di Europa a farsene paladine.
Alla fine della guerra fredda, e col venir meno delle sue costrizioni, però, le due matrici sono tornate a rivendicare i loro diritti di primogenitura. Ai nostri giorni, a me pare che si contrappongano sempre di più una corrente che vuole fondare l’Europa sulla riscoperta di un patrminio comune, sull’identificazione di quelle correnti popolari e persino populiste che attraversano il corpo del Vecchio Continente, sul rispetto delle specificità nazionali; e un’altra che invece la immagina come una costruzione pianificata dall’alto, basata sull’istituzione di diritti che trasformino le consuetudini sociali, anche a costo di relativizzare la centralità della sovranità popolare e delle sue espressioni. Tradotto con formula tanto icastica quanto imprecisa, si potrebbe dire che a contrapporsi sono l’Europa dei popoli e quella dei burocrati.
La prima Convenzione è fallita anche e soprattutto per la percezione di questa frattura. Da essa sono derivati un testo elefantiaco pomposamente chiamato Costituzione; la previsione di un catalogo di diritti di matrice apertamente post-laburista; il pasticcio di due preamboli immaginati come una carta d’identità nella quale, però, non si è avuto il coraggio di indicare il nome dei propri genitori.
Il Trattato di Lisbona rappresenta per alcuni versi una revisione in senso positivo di questo vizio originario. Si è evitato un preambolo che sancisse il primato dell’Europa dei diritti; si sono messi da parte inni, bandiere e fanfare; è stata riconosciuta la centralità dei Parlamenti nazionali; la Carta dei diritti è stata declassata a protocollo aggiuntivo. Infine, si è immaginato che su alcune questioni un accordo rafforzato tra alcuni Stati membri possa superare l’immobilizzante pretesa di unanimità dei Ventisette.
Restano dubbi e incongruenze, soprattutto sulla parte istituzionale e sul rapporto tra Consiglio e Commissione. Tuttavia, per apprezzare davvero l’inversione di rotta non si può mostrare disprezzo per la manifestazione della sovranità del popolo come alcuni europeisti nostrani hanno fatto di fronte al risultato irlandese. Altrimenti si darebbe ragione a chi paventa che l’Europa possa incubare un dirigismo addirittura pericoloso per le sorti della democrazia.
Non è mettendola con le spalle al muro che si recupera la Lega, quanto piuttosto facendo comprendere che tra l’europeismo di marca popolare che il PdL deve resuscitare nelle forme oggi possibili, e lo scetticismo nei confronti della deriva che l’Europa ha imboccato negli anni ’90 proponendosi come mito sostitutivo del dio che ha fallito, c’è ampio spazio per iniziative comuni. La nostra Costituzione non consente referendum sui trattati internazionali, per cui, se servisse a qualcosa, il testo di Lisbona potrà essere ratificato dal Parlamento, dopo un’analisi critica e il riconoscimento dei passi avanti compiuti. Ma se un referendum fosse possibile, non solo non sarebbe uno scandalo richiederlo: sarebbe auspicabile che si svolgesse.
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