Regionalismo e Unità: un passo avanti e due indietro della storia d’Italia?
26 Aprile 2009
La precedente settimana si è trattato di uno scrittarello, “L’eroe di Caprera” (Le Lettere, pagine 96, euro 8,50), di Giovanni Ansaldo e della formidabile carriera di Giuseppe Garibaldi. In particolare, si è fatto riferimento allo scritto “L’isola”, del 1949, spietato e affettuoso ritratto della regione Sicilia. Un intervento, osserva Francesco Perfetti, “nel quale Garibaldi e il garibaldinismo costituiscono, per Ansaldo, il pretesto e l’occasione per far intendere le proprie idee sulla necessità e positività dell’esito ‘unitario’ del Risorgimento”.
Così, a proposito del persistente “separatismo” che animava élite e popolino locali: “La lotta contro la monarchia borbonica, così fortemente sostenuta da principi e da borghesi, da gabellotti e da zappaterra, fu essenzialmente una lotta separatista. Nessun siciliano poteva ammettere di essere retto da una monarchia stabilita, fuori di Palermo, prima regis sedes e di essere governato da Intendenti e Sottointendenti napoletani”.
A seguire, il salto di qualità, ma anche l’equivoco, rappresentato dalle camice rosse. “Dinnanzi agli uomini dell’Italia settentrionale”, osserva Ansaldo, “andati nell’isola a combattere i soldati del Borbone in nome di un ideale che superava l’antica rivalità tra Napoli e Palermo, che si presentava armato del nome fatato di Roma, che faceva balenare prospettive di grandezza e di potenza, di espansione marittima e coloniale, il millenario separatismo siciliano piegò la sua bandiera”. E l’isola “accettò poi l’Unità, trascinata dalla gran massa d’armi e di cuori, guidata da Garibaldi”.
Eppure, il problema persiste. Al principio degli anni Sessanta, in un’inchiesta promossa da Vittorio Gorresio per la rivista Successo, Ansaldo dice la sua sulle regioni e su quella siciliana in particolare. Il giornalista genovese è nettamente ostile e lo argomenta con davanti agli occhi i tanti equivoci dello statuto speciale panormita. “Sono contro”, afferma Ansaldo, “prima di tutto per motivi politici: perché sono partigiano risoluto e intransigente della Unità nazionale, che è il grande lascito del Risorgimento, e la premessa assoluta perché l’Italia possa diventare un paese moderno, e contare qualcosa nel mondo. Ora, si voglia o non si voglia, l’istanza regionalista di oggi copre troppo spesso, e magari inconsapevolmente, una nostalgia della vecchia Italia pre-risorgimentale…"
"Sono contro, poi, per motivi di costume. La Regione restringe tutto, rimpicciolisce tutto, immiserisce tutto. La Regione è cultura ridotta al dialetto, la politica ridotta al pettegolezzo locale, la finanza ridotta all’imbroglio tra compari; e così via. Un’Italia ordinata regionalisticamente sarà più ‘provinciale’ che mai. I socialisti e i comunisti, che ora propongono il regionalismo per i loro fini tattici ed elettorali, se domani arriveranno al potere, e vorranno realizzare davvero i loro programmi, dovranno per forza ritornare ad un ordinamento unitario".
"Sono contro, infine, per ragioni pratiche. Le Regioni, lungi dal diminuire il peso burocratico, lo aumenteranno, creando burocrazie regionali perfettamente parassitarie. In fondo ad ogni regionalista, del resto, c’è molto spesso, fin d’ora, il desiderio di poter distribuire posti o di ottenere posti. La Sicilia può, in questo caso, insegnare a tutta Italia". Difficile dargli torto. A distanza di quasi mezzo secolo, e dieci anni prima dall’istituzione dell’ente Regione, la Sicilia già svettava per la sua propensione al parassitismo burocratico e all’elefantiasi occupazionale.