Renzi, l’Ilva e le promesse di pulcinella

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Renzi, l’Ilva e le promesse di pulcinella

31 Maggio 2017

Era nell’aria già da tempo, ma adesso è ufficiale: per l’acquisto dell’Ilva di Taranto, sia la proposta risultata vincente, quella presentata dalla cordata “AminvestCo”, di cui fanno parte gli indiani di ArcelorMittal, il gruppo Marcegaglia e Intesa Sanpaolo, sia quella di Acciaitalia (Jindal-Cdp-Del Vecchio-Arvedi) prevedono un numero molto alto di esuberi: 4800 la prima, addirittura 6400 la seconda. Prospettiva che i sindacati considerano “inaccettabile”. In effetti,  se confermati, i tagli al personale previsti da entrambe le cordate metterebbero in seria difficoltà migliaia di famiglie, infliggendo l’ennesimo colpo ad un tessuto economico e sociale, come quello tarantino, già profondamente provato da scelte scellerate frutto di un capitalismo italiano a dir poco irresponsabile, come pure dai danni ambientali prodotti dallo stabilimento siderurgico. E ciò che concorre a rendere la situazione ancor più drammatica è il fatto che, a quanto pare, non sembra che il governo abbia in mano progetti alternativi per il ricollocamento degli esuberi Ilva.

Eppure Matteo Renzi, che oggi ha dichiarato di “seguire da vicino la vicenda Ilva”, aveva più volte confermato che grazie all’impegno del suo governo avrebbe garantito tempi migliori per l’azienda. “Rilanceremo Taranto salvando l’Ilva”, così l’ex premier salutava il primo decreto del 2015 contenente gli interventi (e i finanziamenti) per il salvataggio dell’Ilva. Prospettiva ribadita, guarda caso, alla vigilia del referendum costituzionale: “Noi pensiamo che Ilva deve avere un futuro se risanata anche dal punto di vista dell’impatto ambientale. Ecco perché siamo intervenuti in modo molto significativo e abbiamo stanziato 1,6 miliardi” diceva l’ex premier in preda alla smania di racimolare voti per il Sì. Tanto che era arrivato anche a dare per imminente, quasi attribuendosi il merito, il versamento della cifra (1,3 miliardi di euro) che gli ex proprietari dell’azienda, la famiglia Riva, avrebbe dovuto dare all’Ilva e a Taranto quale compensazione per il danno ambientale prodotto. Cifra che, però, per questioni burocratiche legate ai fondi esteri degli ex proprietari dello stabilimento tarantino, si è sbloccata solo qualche settimana fa. E, in ogni caso, l’ammontare non è stato deciso dall’ex premier, bensì dalle valutazioni giudiziarie.

Tuttavia, se oggi la situazione dell’Ilva è quella che è, una domanda sorge spontanea: dato che Renzi si è più volte complimentato con Teresa Bellanova, viceministro dello sviluppo economico e membro della nuova segreteria Dem, per lo “straordinario lavoro” sulla gestione del caso, come mai si è arrivati a questo punto? E i famosi 1,6 miliardi di euro a cosa sono serviti? Se i risultati dello “straordinario lavoro” sono questi, allora tutto fa pensare che siamo di fronte all’ennesimo fallimento della politica economica renziana, stile Alitalia, che, ancora una volta si è rivelata per quello che è: promesse, promesse e nient’altro che promesse. Altro che industria 4.0! Il caso Ilva dimostra ancora una volta che il Sud resta il “grande dimenticato” della politica renziana. Perché nel mezzogiorno, piuttosto che puntare sulla grande industria – più che chiudere i battenti, casi come quello di Ilva necessitano di una profonda riconversione – nessuno degli ultimi governi a guida Pd ha preso seriamente in considerazione il varo di un grande piano per dare ossigeno e favorire  lo sviluppo delle piccole e medie imprese, prevedendo, ad esempio, benefit e agevolazioni fiscali tanto forti da rilanciare gli investimenti in questa parte del Paese.

Renzi prima e Gentiloni poi hanno preferito mettere toppe a destra e a manca, magari utilizzando altro denaro pubblico, piuttosto che verificare eventuali prospettive di sviluppo a lungo termine. E così, ora l’unico risultato reale di questa politica, per Ilva come per Alitalia, sono gli esuberi. Altro che Industria 4.0, altro che Jobs Act…