Retorica sull’Europa e democrazia

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Retorica sull’Europa e democrazia

27 Maggio 2012

«S’ode a destra uno squillo di trombone/ a sinistra risponde uno squillo…». Scrive Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera: «L’Europa deve avere uno scatto. Ma la spinta deve arrivare da ogni paese». Angiolo Bandinelli, sul Foglio, esalta Emma Bonino che si sforza di far capire che quel che occorre è l’Europa. A voler citare tutti gli europeisti in servizio permanente occorrerebbero due pagine fitte di quotidiano. 

Intendiamoci, chi non è per l’Europa? Da Luigi Einaudi ad Altiero Spinelli, liberali e sinistra democratica si sono battuti per superare i gretti egoismi nazionali e fondare un ordine duraturo continentale su basi federali. Sennonché sorge un dubbio. Se l’Europa in costruzione è destinata a trasformare radicalmente società, culture, istituzioni, se è realmente un fatto nuovo e ‘rivoluzionario’ non dovrebbe essere il ‘popolo europeo’ il protagonista e l’artefice del nuovo capitolo della storia del mondo? Ci si lamenta (e ci si preoccupa giustamente) che il ‘governo dei tecnici’ ha ‘sospeso’ la democrazia e poi si affida a un parlamento lontano dalla ‘gente’ e, più concretamente, a un’aristocrazia di ‘esperti’ e di banchieri, il potere di alterare ab imis il nostro habitat materiale e spirituale! Sinceramente, non capisco. Un’intera stagione storiografica, sulla scia di Alfredo Oriani, ci aveva fatto deprecare il processo di formazione dell’Italia unita in quanto dovuto a una ‘minoranza eroica’ a fronte di masse assenti e indifferenti e oggi, nell’epoca del trionfo della democrazia, si vuole che la ‘rivoluzione’ avvenga nei labirinti segreti del potere politico e finanziario. A rilevarlo, si rischia di essere considerati un populista, ma qualcuno pur ci vuole per dire che «il re è nudo!».

 Quale Europa vogliamo? Un’Europa liberale e liberista? Un’Europa che rifondi a livello continentale quel Welfare State che, a livello nazionale, ha il fiato grosso? Un’Europa atlantica? Un’Europa che sostituisca l’America come garante della pace in Medio Oriente? Un’Europa greco-romano-cristiana o un’Europa portatrice di valori cosmopolitici? Queste tematiche, dibattute nelle stanze chiuse delle istituzioni culturali, sono state portate all’attenzione delle masse che, in democrazia, sai com’è, sono le titolari della sovranità? In realtà, sotto sotto c’è chi teme che, a sottoporre al voto popolare il cantiere Europa, dal quale dipenderà, in un avvenire prossimo, il destino nostro e quello dei nostri figli, si rischi di arrestare la marcia trionfale del progresso. D’accordo, ma se è così non dovremmo rivedere tutti i nostri parametri concettuali? E non dovremmo riabilitare il vecchio Auguste Comte che, criticando ferocemente il principio della democrazia liberale, «un uomo/un voto», faceva osservare come vi si annullasse ogni competenza e si ponesse l’ingegnere sullo stesso piano del portiere? E non dovremmo essere più indulgenti nei confronti dei nostri ‘padri fondatori’ che organizzarono plebisciti di annessione al Piemonte sulla cui correttezza avanzò forti riserve il guardiacaccia del Gattopardo?

 Per costruire ieri l’Italia, che esisteva come ‘identità culturale’ nelle classi medie e istruite della penisola – v. le memorie di Giovanni Visconti Venosta, di Massimo D’Azeglio e di altri scrittori dell’Ottocento – non bastava la mobilitazione degli attori sociali che allora ‘contavano’ – la borghesia delle professioni e delle nascenti industrie – ma ci voleva la partecipazione di popolo; per costruire oggi l’Europa è meglio che la gente se ne stia a casa e non si azzardi a disturbare il conducente?
E’ un doppiopesismo che si capisce fin troppo bene: la ricordata interpretazione del Risorgimento aveva ben poco a che vedere con i ‘fatti’, ma intendeva legittimare l’ingresso di nuovi attori sociali e politici nel ‘palazzo’; la diffidenza nei confronti del ‘demos’ è dettata da abiti della mente atavici per i quali, quando ‘si fa sul serio’, a decidere siano gli ’uomini di mondo’, anche se non hanno fatto il militare a Cuneo.

Legno storto domenica 27 maggio 2012.

 

La soppressione della Storia del Risorgimento. Risposta a Dino Cofrancesco

Da tempo mi sforzo di richiamare l’attenzione sull’importanza di una vecchia materia come ‘Storia del Risorgimento’ (ormai depennata dai piani di studio in quasi tutte le Facoltà di Lettere) per la ‘sociologia dello sviluppo politico’.

Caro Dino, tu  sottolinei giustamente un aspetto molto importante, e certamente non casuale, delle scelte poste in essere nel campo della politica universitaria negli ultimi anni. La storia, e la storia del Risorgimento in particolare, viene negli ultimi tempi spesso soppiantata da materie fumosamente sociologiche, e questa operazione viene gestita da una folta schiera di docenti appartenenti alla sinistra.

E pensare al ruolo centrale assegnato alla storia dai posthegeliani! Ma così, utilizzando categorie di tipo sociologico ed economico invece di quelle di tipo storico e politico, si cerca di mascherare il venir meno di una serie di presupposti e valori che erano, appunto, tipici del materialismo dialettico e della vecchia storiografia che ad esso si rifaceva, e di rivendicare – con altro linguaggio – il "vecchio" primato sulla politica dell’economia – e successivamente della sociologia. Primato che è stato per decenni cavallo di battaglia di un marxismo che negli ultimi anni è stato colto da una crisi di pudore.

Ma la politica in realtà non era affatto estranea a questi partiti – basta pensare al primato assoluto che le attribuiva Lenin. Visto però che quella tradizione politica e quella storiografia appaiono ormai sempre più screditate, il tentativo ora è quello di trascinare nello stesso discredito le altre grandi famiglie politiche e le altre grandi categorie storiografiche affermatesi fra ‘800 e ‘900. Una operazione posta in essere con molti accorgimenti in questi ultimi tempi, quando in buona parte ci si sta "accorgendo" che quelle famiglie politiche e quelle categorie storiografiche hanno retto un poco meglio alla critica, tanto che la sinistra cerca di appropriarsene anche – vedi le iniziative e le manifestazioni indette dall’Istituto Gramsci – cercando di giocare il ruolo di chi è "capace di analizzare criticamente" la storia della propria parte politica, allo scopo di controllare, filtrare, ammorbidire ed orientare certi giudizi e certe valutazioni.

E si badi che, in maniera solo apparentemente paradossale, ma con la solita abilità mistificatoria dei "gramscisti", ciò avviene in parallelo con un’altra operazione politica, attentamente supportata anche ai vertici dello Stato: grande campagna celebrativa del Risorgimento posta in essere allo scopo non solamente di contrastare la Lega Nord e combattere la sfiducia e la stanchezza che stanno dilagando nel Settentrione nei riguardi dello Stato unitario, ma molto di più allo scopo di attribuire alla sinistra un atteggiamento di favore verso lo Stato italiano – mai avuto, se non negli ultimi anni a scopo strumentale –, che poteva legittimare a proporsene come forza di governo un partito che era sorto come accesamente rivoluzionario. E qui si è delineata una convergenza fra quella parte dei cattolici contro la quale è stato fatto il Risorgimento – tanto che essi si astennero a lungo dalla partecipazione politica – e quei comunisti fino a ieri ostilissimi nei confronti del "vecchio" Stato sorto dal Risorgimento, additato come "stato delle classi dirigenti liberali", o "stato di repubblicani di tipo mazziniano", anch’essi a lungo presentati tanto criticamente – pure se oggi si cerca di mascherare tutto ciò.

 Legno storto domenica 27 maggio 2012.

Commento di Dino Cofrancesco

Cara Bianca, sono d’accordo, <il va sans dire>. Aggiungo soltanto che l’unità sarebbe stata impensabile senza il sostegno delle classi sociali,la media borghesia, la borghesia intellettuale..–i ceti che allora <facevano la storia>– e che quelle classi sociali erano, in prevalenza, cattoliche. I cattolici liberali (o comunque i cattolici ‘costituzionali’) non sono stati le truppe ausiliarie del Risorgimento ma le quadrate legioni che hanno assicurato la vittoria finale–un ruolo reso tanto più difficile dalla (pur comprensibile) ostilità del Vaticano all’idea nazionale italiana. Eppure durante le celebrazioni chi ha parlato di Lambruschini, di Gioberti, di Manzoni, di Capponi, di Mamiani, di Minghetti,di Ricasoli, di d’Azeglio etc. etc.? Forse c’è una ‘logica’ in queste rimozioni. La sinistra cattolica, in Italia come in Francia, non nasce dalle costole di Balbo o di d’Azeglio: spesso si tratta di  oltramontani e tradizionalisti convertiti ,che del pensiero reazionario conservano, però, la critica radicale della società civile moderna. Una volta convertiti all’idea di eguaglianza–il punto archimedeo che consente di passare dalla critica antiborghese dei reazionari alla critica antiborghese dei progressisti–non guardano più alla tradizione ma al futuro. A differenza di Lamennais–passato da de Maistre alla democrazia sociale–i nostri cattolici ‘democratici’ non hanno mai attraversato la fase ‘liberale’ (quella dell”Avenir’)e, pertanto, cooptati dai post–comunisti nella classe dirigente e nella cultura di regime,si sono ben guardati dal ricordare ‘antenati’che non erano i loro antenati.