Riapriamo l’Italia, whatever it takes
11 Aprile 2021
Diciamoci tutta la verità: il Paese è allo stremo. E’ economicamente abbattuto, è socialmente lacerato, è psicologicamente sfiancato. Le categorie più esposte alle conseguenze di questa lunga crisi, mai così grave dal dopoguerra, hanno esaurito ogni margine di resistenza. E le stesse misure di contenimento vanno perdendo di giorno in giorno significato per il semplice fatto che anche i più ligi osservanti delle regole iniziano a interrogarsi sulla loro efficacia e soprattutto sulla loro sostenibilità.
Insomma, quell’altra pandemia che è conseguenza della prima e che rischia di produrre effetti destinati a durare molto più a lungo, per dirla con uno dei termini epidemiologici con i quali in quest’anno di Covid abbiamo assunto dimestichezza, sembra essere giunta al suo “plateau”. E, per essere coerenti con il proposito iniziale di sincerità, finora in termini di restrizioni trovare sostanziali differenze con quanto fatto dal precedente esecutivo non è semplice. Anzi, quando esse si scorgono, sono in senso ulteriormente restrittivo.
Oltre a dirci la verità, il secondo sforzo che è necessario compiere consiste nel non applicare alla lettura della situazione quell’odioso criterio dei due pesi e delle due misure che ti fa vedere tutto nero quando sei all’opposizione e giudicare con maggiore indulgenza l’operato di un governo che si è scelto di sostenere. Insomma: se Draghi facesse le stesse cose del governo Conte – con tutte le attenuanti che è possibile riconoscere a un avvocato digiuno di politica e a una squadra improvvisata allestita per la serie C trovatisi a giocare da un giorno all’altro in Champions League – bisognerebbe dirlo senza infingimenti e senza giri di parole.
Il fatto è che – e questo è il tema di queste brevi considerazioni – a noi non pare che Draghi faccia le stesse cose del governo Conte. Certo, la navigazione e la narrazione del suo esecutivo scontano fin qui il peccato originale di un eccesso di continuità nella gestione del contenimento sanitario, con il premier che sembra aver puntato tutte le sue fiches da un lato sul Recovery, dall’altro sul piano vaccinale. Ma proprio qui sta il punto.
L’impressione, per la prima volta da un anno a questa parte, è che il tempo di chiusura finora imposto se possibile anche con maggiore durezza rispetto al periodo precedente, sia stato impiegato in un serio tentativo di portare presto il Paese fuori da questo lungo tunnel. E, anche allargando lo sguardo rispetto all’orizzonte Covid, il cambio di passo è evidente. Siamo pronti a riconoscerlo, anzi lo riconosciamo volentieri e non senza sollievo. Purché per la fine di aprile si tracci una linea e si inizi la raccolta del seminato, perché l’Italia davvero non ce la fa più.
Tiriamo rapidamente qualche somma. A febbraio, durante la fase delle consultazioni, Mario Draghi aveva ripetutamente espresso il proposito di sottoporre il Paese a una cura antidepressiva, presupposto per l’avvio della ripartenza economica. Compiute le pratiche dell’insediamento, e smaltita la delusione per una squadra di governo che non era esattamente il dream team che ci si sarebbe attesi, i più avvertiti nel mondo politico e anche fra gli operatori economici avevano intuito quale sarebbe stato lo scadenzario: due mesi di ulteriori restrizioni – marzo e aprile – e intanto uno sforzo senza risparmio per pianificare una ripresa che sia duratura e non illusoria ed episodica come quella della scorsa estate.
Questo sforzo ha assunto le sembianze di un poderoso ritorno in campo dello Stato. Sul fronte Covid ma non solo: anche, sorprendentemente, sullo scenario internazionale nel quale l’ex presidente della Bce, scrollandosi energicamente di dosso l’etichetta di alto burocrate asservito che una certa narrativa gli aveva cucito addosso (dimostrando peraltro di non aver compreso l’operazione del “quantitative easing”), ha rivoltato le carte nello stesso fronte europeista del quale era considerato campione indiscusso.
Mettiamo in fila qualche fatto. La sostituzione di Mimmo Arcuri con il generale Figliuolo, con la penna sul cappello al posto delle costose primule vaccinali e la sua rassicurante mimetica con le stellette (con buona pace di Michela Murgia); la nuova linea di comando nella Protezione civile e nel comparto degli apparati di sicurezza; il ridimensionamento e l’assetto più “istituzionale” del comitato tecnico-scientifico; domande (senza censure) e risposte (puntuali) al posto delle dirette Facebook con la regia di Rocco Casalino; una campagna vaccinale che tra mille difficoltà a livello di rifornimento internazionale e qualche rimpallo strumentale di responsabilità ha oggettivamente compiuto un salto – di quantità, prim’ancora che di qualità – e imboccato la via del decollo, nella speranza che ci si possa avvicinare in tempi rapidi ai livelli annunciati.
Sul versante della politica estera abbiamo assistito – piacevole sorpresa – all’avvento di un europeismo pragmatico e orientato all’interesse nazionale in luogo dell’europeismo fideistico e acritico interpretato dalla sinistra, migliore benzina per un anti-europeismo irrealistico e altrettanto inconcludente. In alcuni frangenti, ascoltando Draghi tornava in mente il De Gasperi della Ced: l’Europa è un orizzonte da ricercare ed allargare se e fin quando serve all’Italia; da smentire e denunziare se quell’idea si sottomette esclusivamente agli interessi degli stati “maggiori” del Vecchio Continente.
Abbiamo ascoltato nuovamente parole che le nostre orecchie da tempo non captavano. Il ripristino di un linguaggio di verità. Sentire il capo del governo italiano definire Erdogan uno di quei “dittatori di cui però si ha bisogno”, che vanno “chiamati per quello che sono”, rispetto ai quali bisogna essere “franchi nell’esprimere la propria diversità di vedute e di visioni della società” e anche “pronti a cooperare per assicurare gli interessi del proprio Paese”, trovando “il giusto punto di equilibrio”, è stata una ventata di realpolitik dalla schiena dritta nel momento nel quale c’è chi addirittura torna a vagheggiare la possibilità di un ingresso della Turchia in Europa, ribadendo un errore che ha contribuito non poco a peggiorare i nostri rapporti con un Paese che, se considerato per quello che è, resta un interlocutore indispensabile. E ancora. L’esercizio abbondante del golden power per proteggere i nostri settori strategici dalle incursioni cinesi; la riaffermazione dell’atlantismo come vocazione irrinunciabile; l’applicazione di clausole previste dagli accordi europei con le case farmaceutiche che a livello di Unione erano rimaste lettera morta; l’avvio di contatti diretti con i produttori di vaccini per ovviare ai ritardi comunitari.
Certo, non intendo tratteggiare un quadro idilliaco né far finta di non vedere i prezzi pagati all’ideologia e alla tattica politica: dalla scelta di assumere un “rischio calcolato” in nome di un’analisi costi-benefici per riaprire subito le scuole rifiutando di fare altrettanto con le attività economiche, alla difesa d’ufficio delle strutture governative in alcune stravaganze della campagna vaccinale che hanno portato a immunizzare giovani ricercatori in smart working lasciando gli anziani in lista d’attesa. Tema rispetto al quale, tuttavia, va anche detto che a fronte di linee guida nazionali non sempre chiare, fra regione e regione vi sono state differenze di comportamento abissali (anche se, pur sapendo tutto ad esempio dei problemi avuti in Lombardia, incredibilmente non si parla mai di regioni come la Toscana… misteri della fede!).
Quel che voglio dire è che l’apertura di credito fin qui tributata al presidente Draghi è solidamente motivata. Purché dalla seconda metà di aprile, trascorsi i fatidici due mesi, si prenda atto che il Paese è stremato e qualsiasi siano i frutti della semina fin qui compiuta si consenta all’economia e anche alla socialità di ricominciare a respirare. In misura proporzionata ai dati epidemiologici (che andrebbero forniti in modo talvolta più rigoroso, ad esempio senza sparare “718 morti” se quel numero comprende anche dati dei giorni precedenti…), ma anche consapevole del reale funzionamento e delle indicibili sofferenze del mondo produttivo e soprattutto di quella economia di prossimità e del suo enorme indotto che più di ogni altro hanno pagato il prezzo di questa pandemia.
Va bene lo scostamento di bilancio, vanno bene i ristori, va bene la semplificazione delle procedure rispetto al passato riscontrabile anche dalla semplice lettura comparativa dei testi dei decreti. Ma a fronte di una crisi di queste dimensioni non c’è ristoro che tenga. L’unico ristoro è ricominciare a lavorare, con protocolli di sicurezza per adeguarsi ai quali le attività hanno speso molto in termini economici e organizzativi, e con la consapevolezza che – anche dal punto di vista della sicurezza sanitaria – è meglio assecondare in misura progressiva e regolata il bisogno incontenibile di vitalismo economico e sociale che ostinarsi a reprimerlo sapendo che esso è ormai tracimante e troverà forme assai meno controllate per esprimersi, vanificando gli sforzi di contenimento del contagio senza dare alcun sollievo all’economia.
Insomma, presidente Draghi: fin qui ha dimostrato di non voler sprecare il tempo supplementare di sacrificio imposto ai cittadini. Ora consentiamo al Paese di ripartire, e noi le saremo accanto. Riaccendiamo l’Italia. Whatever it takes.