Riconoscere i ‘diritti universali’ non significa ricostruire i rapporti tra cattolicesimo e liberalismo

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Riconoscere i ‘diritti universali’ non significa ricostruire i rapporti tra cattolicesimo e liberalismo

17 Giugno 2012

Nell’ultimo paragrafo del suo denso saggio,Chiesa e diritti umani, (Ed. Il Mulino) Daniele Menozzi sintetizza, in termini chiari ed efficaci,i risultati della sua ricerca:« la ricostru­zione svolta in queste pagine ha messo in luce: la debolezza, l’insufficienza e l’inadeguatezza del dialogo instaurato dalla svolta giovannea e conciliare con la modernità. Nell’odierno panorama storiografico abbondano le voci di chi celebra apolo­geticamente quella svolta e di chi ne nega pregiudizialmente la portata. La vicenda qui raccontata mostra un percorso diverso: la pur reale volontà di apertura della chiesa al mondo moderno e all’uomo contemporaneo non si è compiutamente tradotta in un appoggio agli strumenti che un lungo e tormentato percorso storico aveva prodotto per regolare la convivenza civile. La spiegazione dell’invasivo ritorno della chiesa alla legge naturale a danno dei diritti umani sta, in fondo, anche nelle carenze di un ambiguo aggiornamento ecclesiale, in cui la rivendicazione del possesso della verità sul bene comune del consorzio civile Si è intrecciata con la tendenza a immergersi pienamente nella storia degli uomini, senza però riuscire a superare l’eredità della tradizione intransigente».

A voler ulteriormente sintetizzare, il saggio di Menozzi è la storia faticosa del continuo oscillare delle autorità ecclesiastiche tra il rigetto dogmatico e intransigente dei ‘diritti umani’ e il tentativo di recuperarli all’interno di una concezione dei diritti della persona umana, fondata sulla teologia morale cattolica, moderatamente aperta al moderno. Il racconto che si apre con la partecipazione critica e guardinga dei vescovi francesi al grande dibattito sui diritti umani, nelle prime battute della Rivoluzione francese, si conclude con la relativa restaurazione ratzingeriana, destinata a segnare una decisa battuta d’arresto sulla via che era stata intrapresa dal Concilio Vaticano II e che aveva trovato la sua fondazione dottrinaria anche in teologi come Jacques Maritain (l’ultimo Maritain) e Pietro Pavan, per limitarci a loro.

«La rivoluzione iniziata con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo, non finirà che con la dichiarazione dei diritti di Dio». La «frase folgorante» pronunciata dal Visconte de Bonald, assieme a de Maistre, il mastino della Restaurazione, per Menozzi, era «destinata ad essere frequentemente ripresa e ripetuta in chiave polemica nel corso dell’Ottocento, a testimonianza della separazione che divideva una robusta corrente della comunità ecclesiale da quel mondo moderno che si richiamava alla Carta dell’89». Della ricchezza di documentazione presentata nel libro testimoniano schiere di teorici e di libri con i quali la ‘cultura laica’ non ha mai avuto grande dimestichezza. Menozzi riserva una particolare attenzione al cattolicesimo francese e alle sue grandi figure, come F. Dupanloup, F. Lamennais, H. Maret, per non dire d’altri, nonché all’impegno col quale cercano una mediazione tra l’insegnamento tradizionale della Chiesa e l’umanesimo laico che ha tradotto i principi dell’illuminismo in progettualità politica, attraverso la dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino e la ricostruzione della convivenza civile su nuove basi—le ‘dee dell’89’, per l’appunto, la libertà, l’eguaglianza, la fraternità. Di particolare interesse la figura del giovane teologo Henri Maret che, ne La religion et la philosophie Paris 1845), si era spinto molto avanti sulla strada della ‘conciliazione’.

«Richiedere la libertà per la chiesa, asserendo la contraddizione delle leggi che la impedivano rispetto ai principi costituzionali derivanti dalla rivoluzione, implicava aderire a tali principi. In questa prospettiva Maret si sforzava di mostrare la conciliabilità con il cattolicesimo delle libertà moderne, in primo luogo quella libertà di pensiero che i contemporanei negavano che la chiesa potesse riconoscere. Era una prospettiva cui in qualche modo aderivano quei settori del cattolicesimo liberale che, nel ripercorrere la storia della rivoluzione, riconoscevano come da essa scaturisse un’autonomia dell’uomo nell’edificazione del consorzio civile che non poteva ormai essere più cancellata.».

Nell’età orleanista e dello stesso Secondo Impero sembra ripetersi il copione di un rapporto con le ‘libertà dei moderni’ che, da modus vivendi tattico (occorre approfittare delle opportunità che un’applicazione, per poco coerente che sia, dei diritti di libertà schiude alla Chiesa) , rischia di diventare qualcosa di più, un cristianesimo profondamente rinnovato e liberato dalla zavorra tradizionalista. Il va sans dire che, nel fervore dei dibattiti e delle revisioni tra cattolici democratici, cattolici liberali e cattolici sociali, il Sillabo di Pio IX irrompe come un tragico guastafeste. Come fa rilevare Menozzi,con Pio IX, si afferma, senza mezzi termini,« l’assoluta incompatibilità del cattolicesimo con una civiltà moderna che presentava come la causa dei mali che funestavano il presente. Tra questi non denunciava solo l’aggressione allo Stato  della chiesa, la cancellazione dei privilegi ecclesiastici spesso da tempo sanciti in formali concordati, la soppressione di ordini religiosi, l’attacco alle proprietà ecclesiastiche, ma soprattutto la proclamazione di diritti antitetici a quei diritti della chiesa che ogni regime doveva garantire all’interno del suo ordinamento: l’introduzione della libertà di religione, di stampa, di manifestazione del pensiero e l’uguaglianza giuridica di tutti i cittadini, indipendentemente dal culto, nell’accesso ai pubblici impieghi e alle scuole Insomma, proprio perché essa ripro­poneva il modello elaborato dalla Rivoluzione francese, il papa proclamava l’impossibilità di «acconciarsi con l’odierna civiltà per la cui opera mali sì grandi e non mai deplorati abbastanza succedono. Agli occhi del pontefice un regime imperniato sui diritti sanciti nell’Ottantanove, privando la chiesa del sostegno giuridico dello stato nello svolgimento del suo ministero, equi­valeva di fatto alla costruzione di un nuovo ordine sociale il cui obiettivo reale era la distruzione della religione cattolica.».

Con Leone XIII, il magistero ecclesiastico sembra passare dalla difesa all’attacco nel tentativo di rifondare la società europea in chiave antiliberale e antisocialista con un ritorno al tomismo e a un’idea di legge naturale in grado di far ritrovare agli uomini le loro autentiche radici dopo tanti sconvolgimenti rivoluzionari. I principi ispiratori sono sempre gli stessi: diritti e libertà non sono valori assoluti ma debbono porsi al servizio della persona, com’è intesa dalla dottrina cattolica. Le parole dell’enciclica ‘Libertas (giugno 1888) sono inequivocabili:« non è lecito invocare, difendere, concedere libertà illimitata di pensiero, di stampa, d’insegnamento e di culti, come altrettanti diritti competenti naturalmente all’uomo. Infatti, se tali fossero, si avrebbe diritto di essere indipendenti da Dio e non potrebbe l’umana libertà essere moderata da legge alcuna. Infine consegue che queste libertà si possono, è vero, quando lo richiedono cause giuste, tollerare, ma dentro certi limiti, affinché non abbiano a degenerare in eccessi.». E’ quanto ribadirà, ancora nel 1945, un assiduo collaboratore de ‘La civiltà cattolica’, Andrea Oddone, allorché dichiara inammissibile «il riconoscimento ufficiale degli stessi diritti per la verità e per l’errore, per il bene e per il male, il rifiuto del rispetto e della protezione dovuti ai diritti esclusivi della chiesa cattolica, il diritto insomma di pensare, di dire, di fare anche quello che è contrario alle leggi divine e umane».

Nelle pagine dedicate al papato, negli anni del regime, Menozzi, da un lato, ridimensiona molto le critiche di Pio XI al fascismo e a Hitler e, dall’altro, mostra il pericoloso riemergere, nel  mondo cattolico, di tentazioni antisemitiche, pur nella decisa condanna del razzismo biologico nazista. Persino a proposito della Mit brennender Sorge, che segna il punto di maggior conflitto con la Germania, lo storico ridimensiona drasticamente  le valenze liberali della condanna di Papa Ratti: « L’esigenza di prendere posizione nei confronti del totalitarismo nazista non determinava dunque spostamenti rilevanti nell’affrontare il tema dei diritti attorno cui organizzare la società civile. Si riproponeva la linea espressa nei precedenti documenti pontifici: il totalitarismo metteva in discussione il controllo ecclesiastico della legge divina e naturale—e delle loro specificazioni che dovevano essere poste a base della convivenza umana—sicché esso era condannato non in quanto ledeva i diritti umani, ma in quanto ledeva il diritto della chiesa a fissare le regole giuridiche fondamentali della vita collettiva.» E ancora « La condanna della tesi che vedeva nello stato la fonte dei diritti, non implicava | ..| il riconoscimento dei diritti umani: essa costituiva soltanto la premessa dell’attribuzione alla chiesa del compito di determinare i diritti su cui costruire il consorzio civile.». Con qualche significativa variante, è la posizione di Pio XII, disposto (finalmente) ad accettare la democrazia nella misura in cui la religione cristiana ne fosse il fondamento.

La vera svolta arriva col Vaticano II e col pontificato di Giovanni XXIII. E’ in questo periodo che <alla tradizionale visione diffidente e critica verso i diritti umani> la chiesa sostituisce un atteggiamento <ottimistico e costruttivo> in quanto li presenta come via di realizzazione dei diritti della persona. Certo anche in una enciclica come Mater et Magistra (1961) «sono i diritti naturali definiti dalla chiesa sulla base del suo possesso della verità—e non i diritti che l’uomo scopre e formalizza nel divenire del processo storico—a costituire il fondamento del consorzio civile» ma, grazie anche a teologi come il ricordato Pavan, si registra un’evoluzione non sottovalutabile. Nella Pacem in terris (1963), infatti, « i umani diritti non più genericamente richiamati, ma concretamente specificati nella versione fornita dalla Dichiarazione universale del 1948, vengono vivamente apprezzati come una tappa di avvicinamento, valido a livello planetario per tutti i popoli e tutte le nazioni, al modello ideale di organizzazione del consorzio civile proposto dalla chiesa».

Col successore di Papa Roncalli, però, non si va avanti. Non che Paolo VI faccia ritorno alle posizioni di Pio XI e di Pio XII, «l’apertura giovannea faticosamente elaborata durante il Vaticano II» non si perde, certo, ma pur nella condivisione dei diritti sanciti dalla Dichiarazione universale, prevale « ora il richiamo ad affidare all’autorità ecclesiastica depositaria dell’unica nozione autenticamente universale di natura, il supremo giudizio su quali diritti rispondessero in ogni circostanza storica alle profonde e autentiche esigenze dell’uomo». Con Giovanni Paolo II, ricompare la prevalenza dei diritti della persona (che poi sono i diritti di Dio) sui diritti dell’uomo: la filosofia dell’ONU non viene rigettata ma se ne sottolineano le divergenze rispetto a quella cattolica. In anni in cui il dibattito sui temi bioetici balza in primo piano—v. l’Evangelium vitae del 1995—si assiste a un richiamo, sempre più forte, alla ‘legge naturale’ di cui la Chiesa si ritiene l’unica interprete autorizzata e, nel nuovo clima, venato di neo-intransigentismo, finisce per riemergere « nell’insegnamento papale uno degli schemi dell’intransigentismo ottocentesco: soltanto nella subordinazione dell’uomo alla verità politica e sociale proposta dalla chiesa si può garantire una convivenza civile degna di questo nome».

Con Ratzinger, infine, la Dichiarazione universale viene accolta pienamente e anzi se ne deplora la mancata attuazione ma appropriandosi del suo contenuto e piegando i fatti storici a un’interpretazione dei diritti umani che ne fa quasi una versione secolarizzata (e depotenziata) dei diritti della persona.«Sullo sfondo, conclude Menozzi, si profilava nuovamente l’autorità ecclesiastica—e in particolare il suo vertice romano—come giudice supremo della corretta determinazione giuridica dei diritti umani e delle regole fondamentali del consorzio civile»

Il resoconto che ho dato della ricerca di Menozzi—uno dei maggiori specialisti, a livello accademico, della storia dei rapporti tra chiesa e stato in Italia—rende solo una  pallida idea della ricchezza dei riferimenti storici, della raffinata esegesi dei testi, della ricostruzione dei dibattiti culturali e dei conflitti interni al mondo cattolico. Si tratta di un lavoro imponente che lascia intravvedere anni di scavi archivistici e di analisi accurata dei documenti.

Espressa la doverosa gratitudine allo storico per tutto ciò che ha fatto conoscere ai non addetti ai lavori, non posso esimermi, però, dal manifestare alcune perplessità di carattere metodologico e teoretico. La prima perplessità nasce dalla quasi completa assenza della società civile cattolica che, nell’arco di tempo preso in considerazione da Menozzi, svolge, nel nostro paese, un ruolo politico e sociale decisivo. Anche se sono stati quasi del tutto ignorati, nelle celebrazioni dei 150, sono state, soprattutto, le classi medie—la borghesia agraria e imprenditoriale colta, le professioni liberali, gli ufficiali smobiliati dopo il 1815—a ‘fare l’Italia’ e quelle classi medie erano, per la maggior parte, cattoliche. E non certo nel senso che andavano in Chiesa e prendevano i sacramenti ma nel senso che la loro formazione culturale, i loro valori, la loro filosofia del diritto, la loro dottrina dello Stato non erano il riflesso di un’educazione laicistica e illuministica alla francese ma avevano radici antiche che risalivano alla Scolastica e alla metafisica razionalistica del 600 che al tomismo aveva sostituito altri e più moderni punti di riferimento. A enumerare i cattolici patrioti, che si dissero dapprima chiamati neo-guelfi e, in seguito, tout court,si sarebbero chiamati ‘cattolici liberali,’ si dovrebbe stilare un lunghissimo elenco. E’ innegabile che l’Italia ricevette un contributo prezioso da Mazzini, da Pisacane,da Garibaldi con la loro (diversa) capacità di mobilitare una piccola borghesia intellettuale irrequieta e insofferente dell’ancien régime vanamente restaurato ma è altrettanto certo, a voler mettere da parte le retoriche repubblicane e il risorgimento laico, che il processo unitario non sarebbe andato in porto senza il sostegno di ceti che, nell’Ottocento, prima dell’avvento della democrazia di massa, decidevano il destino dei popoli e che, nel nostro paese, si battezzavano e comunicavano più di una volta l’anno. I Capponi, i Mamiani, i Lambruschini, i D’Azeglio,i Ricasoli, i Minghetti, i Rosmini, gli Gioberti,i Manzoni, i Bonghi, i Balbo—e mi fermo a loro—furono lo scheletro politico-culturale della ‘Nuova Italia’, ardenti sostenitori di un progetto politico e di nuovi ordinamenti costituzionali che incontravano, e per ragioni troppo spesso misconosciute, la più aperta ostilità del pontefice romano.

Ed erano credenti, sicuramente invisi alla gerarchia e agli scrittori di ‘Civiltà cattolica’ ma che non erano disposti a subire passivamente le direttive dei vescovi e a sottoscrivere, senza batter ciglio, gli insegnamenti impartiti nelle encicliche papali. Lambruschini, critico del celibato dei preti, ironizzava sui «Cattolici Romani, con i quali nessuna transazione è possibile, e che han vista sì acuta da leggere nel Vangelo l’infallibilità del papa e la dannazione di tutti quelli che non appartengono alla Chiesa Romana.»; il cavalier Massimo d’Azeglio, contrario al trasferimento della capitale a Roma, dedicava, nel 1848, un saggio al tema Dell’emancipazione civile degli Israeliti  che si ispirava a una concezione dei diritti che non si distingueva certo da quella dei non cattolici—o di un Carlo Cattaneo che anni prima aveva scritto lo straordinario saggio sulle Interdizioni israelitiche, uno dei suoi capolavori–mentre il fratello, il piissimo marchese Roberto, infaticabile organizzatore di opere di carità, si batteva, con successo, per la cittadinanza pleno jure da concedere a valdesi e ad ebrei (che non a caso, memori, presero a chiamarsi Roberto e Carlo Alberto); Minghetti, in Stato e Chiesa (1878) non esitava a scrivere che « La chiesa cattolica, che un tempo capitanava la scienza e la società, s’è a poco a poco allontanata da esse, e ha finito coll’osteggiarle entrambe.

E di quanto perdeva nel numero dei proseliti, di tanto si sforzava di rendere più vigorosa fra i rimasti la sua potenza, accentrando nel capo la somma d’ogni cosa e spogliando di vita e di vigore tutte le sue membra. Da tre secoli il Papato si studia di sopprimere come pericolosa qualunque partecipazione giuridica del laicato e del clero stesso al governo della chiesa, e il magistero religioso si trasforma in una polizia; della quale tendenza non sono, per avventura, che ultimi corollari il Sillabo e la dichiarazione solenne dell’infallibilità del Papa; certo ne sono la più spiccata espressione. Nel Sillabo infatti tu trovi formulate e sottoposte ad anatema tutte le proposizioni più essenziali degli statuti moderni e i diritti più gelosamente custoditi dai popoli». Né va dimenticato quanto l’impalcatura dello stato liberale laico, nel nostro paese, debba a un giurista cattolico come Carlo Cadorna, sul quale è da consultare la bella voce scritta da Nicola Raponi per il Dizionario Biografico degli Italiani. E’ possibile ricostruire, per fare un esempio non poco significativo, il liberalismo di Alessandro Manzoni ignorando le sue Osservazioni sulla morale cattolica e le stesse considerazioni storiche sulle due rivoluzioni—l’89 francese e il Risorgimento italiano? E la concezione che gli scrittori in esame avevano dei ‘diritti umani’, dei principi costituzionali, delle moderne ‘garanzie della libertà’ aveva un qualche rapporto con la loro formazione ‘cristiana’, nel significato forte del termine, o nulla doveva a quell’<acculturazione> nelle parrocchie e negli istituti religiosi scolastici?

A parte le riserve su questa problematica selezione di testi e di autori, c’è, tuttavia, una considerazione più rilevante che mi sento di fare al libro di Menozzi e che si pone, questa volta, sul piano delle visioni del mondo. Ma perché dovremmo assumere come una verità assoluta e inconfutabile la sua ‘filosofia della storia’ che vede in tutte le rivoluzioni europee altrettante tappe della marcia trionfale che porta alla Dichiarazione di  San Francisco? In fondo, da Vincenzo Cuoco a Guido De Ruggiero, passando naturalmente per Benedetto Croce, il liberalismo italiano si è definito proprio in virtù della distanza critica dal razionalismo (‘astratto’ e rousseauiano) sotteso alla dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. E non solo quello italiano, se si pensa a quella scuola di pensiero che,da Edmund Burke arriva ad Alfred Cobban e che nell’89 non vede una frattura epocale di legittimità, non solo nella storia francese ma altresì in quella europea, non facilmente sanabile. Ci sono anatemi del ‘Sillabo’ che fanno rabbrividire la coscienza dei moderni ed evocano l’ombra e i roghi dell’Inquisizione ma perché il passatismo di Papa Mastai dovrebbe impedirci di prendere in considerazione una tesi che i pontefici hanno sempre sostenuto nelle loro encicliche: che da prendere ‘sul serio’, per usare il linguaggio di Ronald Dworkin, sono le ‘filosofie’che stanno dietro le proclamazioni dei diritti non i paragrafi contenuti nel preamboli delle Dichiarazioni.

In secoli diversi, i cattolici Tocqueville e De Gasperi,  parlano, non a caso, di ‘costumi’ ovvero, per citare il grande discorso di De Gasperi a Bruxelles (1948) di « una atmosfera morale», all’interno della quale agiscono le istituzioni politiche, riguardate come protettrici dell’ordine morale.«In sostanza, diceva De Gasperi, alla base di tutto c’è la coscienza dei cittadini. Bisognerebbe esser ciechi, in effetti, per non rendersi conto che un regime democratico fondato sul popolo dipende più di qualsiasi altro non solamente dalla coscienza morale di cui son dotati i cittadini ma anche dal costume che regge la loro comunità». E’ un delitto di lesa laicità dello Stato pensare che, a fondamento dei costumi, ci sia sempre una qualche fede religiosa e che, si possa pensare, come Henri Bergson, che «la democrazia è per essenza evangelica»? O con Ernesto Buonaiuti che«Il Cristianesimo è l’unica democrazia possibile; perché in nessun’altra forma di vita religiosa, come in nessun’altra visione filosofica della vita, l’aggregato umano, il senso della solidarietà universale, la coscienza dell’unica famiglia del mondo hanno, come nel Cristianesimo, altrettanto rilievo e altrettanto inconsumabile peso»? Secondo John Rawls—che dal suo Liberalismo politico voleva espungere il laicismo illuminista– una democrazia reale deve fondarsi sul <consenso per intersezione> non sull’identità delle ‘visioni comprensive’—come vorrebbero gli esponenti del republicanism–sicché decisivo risulta l’accordo sul leale riconoscimento dei diritti non le basi filosofiche (o teologiche) che lo sostengono.

Le costituzioni (e le prassi giacobine) come quella sovietica–come rilevavano con entusiasmo, negli anni ’50, non solo i comunisti ma, altresì, i democratici progressisti–erano prodighe di ‘diritti umani’ ma, è superfluo ricordarlo, portarono, in diversa misura, al terrore e allo sterminio di intere classi sociali. E’ innegabile, del resto, una pulsione nichilistica, tipica delle ideologie totalitarie (ma, in una certa misura, anche di quelle libertarie), che pratica l’emancipazione totale dai vecchi poteri sociali economici e culturali attraverso il più spietato sradicamento degli individui da tutte le loro determinazioni familiari, ambientali e persino biologiche: è la pulsione, in definitiva, che ha portato, nell’Ottocento come nel Novecento, la più consapevole storiografia liberale—da M.me de Stael a François Furet– a distinguere nettamente lo spirito di Parigi dallo spirito di Filadelfia, la rivoluzione francese dalla rivoluzione americana—fondata, l’una, sull’individualismo razionalistico, che spezzando tutte le catene della tradizione, spezza anche la spina dorsale dello schiavo del potere politico e del pregiudizio religioso; l’altra, sull’individualismo irrazionalistico, che non parla di Libertà (con la maiuscola) al singolare, ma di libertà (con la minuscola) al plurale e di diritti antichi, e quasi naturali, che preesistono alla stipulazione del contratto sociale e che delegittimano lo Stato che non s’impegna nel proteggerli.

Leggendo nel libro di Menozzi le pagine su Pio XII, mi è tornato in mente un vecchio scritto di Bruno Leoni, pubblicato sul ‘Mondo’del 18 marzo 1950. Parlando della condanna papale dell’individualismo liberale, il filosofo del diritto—membro, assieme a Carlo Antoni e a Luigi Einaudi, della prestigiosa Mont Pelerin Society di Friedrich von Hayek– aveva fatto rilevare che tale condanna non coglieva il segno se con quell’espressione s’intendeva il liberalismo di Tucker, di Ferguson, di Smith, di Hume ma era senz’altro appropriata se il bersaglio polemico diventava quell’individualismo razionalistico «conforme allo spirito e alla lettera dell’insegnamento di Cartesio», caratterizzato dalla «fiducia nell’eccellenza delle opere della ragione individuale, in politica come in ogni sorta di arte o di scienza. Muovendo da questi presupposti, l’individualismo razionalistico considera l’individuo ragionante come punto di partenza della società e delle istituzioni, concepite quali creazioni consapevoli di uno, o di molti individui deliberanti: il che porta infine alla conclusione pratica che i processi sociali possono essere fatti servire a fini umani, soltanto se sottoposti al controllo della ragione individuale umana, che organizza la società secondo un piano deliberato (socialismo)».

Non credo che si possa negare che dietro la filosofia dei ‘diritti umani’, in molti casi, si nasconda il progetto prometeico di rifondare la convivenza umana sui principi incrollabili dell’eguaglianza dei diritti da assicurare a tutti gli esseri umani—azzerando le culture, catacombizzando le credenze religiose, riducendo le frontiere nazionali a un colabrodo a maglie larghe che non impediscono a nessuno l’accesso. E’ l’uso che vien fatto dei diritti umani  che, alla fine,  conta veramente giacché è la pratica–che è la vita reale dei valori, il loro farsi carne e sangue–non la mera enunciazione formale a rivelare  la natura profonda di un movimento politico che se ne fa portatore. Un liberale laico non è tenuto a conformarsi alle direttive della Chiesa che stabilisce quali diritti politici, civili e sociali vadano riconosciuti in quanto conformi alla legge naturale ma neppure può togliere alla Chiesa il diritto di dire« questa legge è contraria agli insegnamenti divini».

Che le gerarchie ecclesiastiche sostengano che la libertà (e i diritti) ha valore solo se finalizzata al bene (comunque inteso) non può costituire motivo di scandalo per la ragion liberale. Lo è, invece, il mancato riconoscimento che l’agire oggettivamente buono perde ogni valore se non nasce da un libero convincimento interiore e che nel valutare il quid agendum non si possa fare a meno dal dare ascolto a più voci giacché,  nelle faccende umane come nell’interpretazione di quelle divine, anche qualora si riesca a stabilire infallibilmente che cosa sia bene non si può mai essere sicuri sul modo di conseguirlo. Del confronto tra le posizioni diverse non   può fare a meno non solo la laica ‘democrazia dei moderni’ ma, forse, la stessa Chiesa che, se avesse sempre accettato il dialogo con chi la pensa diversamente, peraltro in conformità allo spirito evangelico, non avrebbe forse avallato  tanti documenti sugli ebrei ‘perfidi’e deicidi.