Ricordo di mio padre, ricordo di un grande attore: Ugo Tognazzi
05 Dicembre 2010
“Ritratto di mio padre”, il lungometraggio presentato il 2 dicembre da Mariasole Tognazzi alla platea del SulmonaCinema, ricostruisce la figura del grande Ugo a vent’anni dalla morte. L’opera è frutto di mesi di lavoro in moviola, rovistando fra Super8, fotografie, articoli di giornale e racconti di persone. Un percorso di ricostruzione fatto di ricordi, film e interviste ai suoi compagni di strada e di lavoro: Mario Monicelli, Bernardo Bertolucci, Pupi Avati, Paolo Villaggio, Ettore Scola, Michel Piccoli, Laura Morante, Valeria Golino e i figli Ricky, Gianmarco e Thomas.
“Ritratto di mio padre” è un tentativo – spiega la regista – di “riaccendere frammenti di memoria, brandelli di emozioni, scoperte e riscoperte di un uomo che ho imparato a conoscere nel tempo, che continuo a conoscere tuttora”. Un uomo complesso, impastato di genio e di contraddizioni, di grandi pregi e di altrettanto grandi difetti che oscillava tra generosità ed egoismo. “Sembra un paradosso – racconta Maria Sole – ma, come tutti i grandi attori, riusciva a dare moltissimo in alcuni momenti e in altri nulla”.
Il documentario di Maria Sole Tognazzi ci restituisce il ritratto di una personalità complessa e tormentata, di un uomo estroverso e melanconico che, terrorizzato dalla solitudine, si circondava di persone, riempiendo e facendosi riempire le giornate di cose e casi. Lavoro, lavoro, lavoro. E poi le (tante) donne, i viaggi,le mille curiosità, il leggendario “Torneo di Tennis Tognazzi” o i memorabili pranzi che organizzava nella convinzione d’essere un cuoco sopraffino. Un’immagine che difendeva a spada tratta e che l’ineffabile Monicelli – nel documentario presente con una delle sue ultime interviste – distruggeva col solito gusto iconoclasta accompagnato dal solito ghigno di sbieco: “Lui pensava di essere un buon cuoco ma non lo era”. Boutade o verità, era (ed è) arcinota la passione di Tognazzi per i fornelli e per la buona tavola, e di certo la sua immagine di chef non ha potuto che rafforzarsi con “La grande abbuffata” di Marco Ferreri o con il libro “L’abbuffone – Storie da ridere e ricette da morire”. E non si può dire che gli dispiacesse.
Dietro un tale amore per la tavola e dietro alla sua dedizione alle alchimie della cucina, Tognazzi teneva, granitico, il punto. Ingordigia e golosità – affermò una volta – sono parole sciocche, “dettate dalla morale corrente punitiva e masochista” quando invece “ognuno è libero di fare la sua scelta, anche di morire gonfio di foie gras stremato dagli amplessi”. È il Trimalcione in salsa modernista: “Disoccultiamo queste due sane, grandi e materialistiche passioni, per troppo tempo tenute nel ghetto della peccaminosità. Riesumiamo quella morale epicurea della gioia, della vita, che fece grande la romanità e il Rinascimento; recuperiamo, nel caso del cibo in particolare, una dimensione che si sta sempre più disfacendo, assediata com’è dalle schiere dei liofilizzati, dei surgelati, degli inscatolati”. E par quasi di sentirlo, da lassù o da laggiù o in qualsiasi limbo si trovi adesso, che si spancia dalle risate alla faccia, alle facce turbate dei moralisti della domenica dagli animi stitici e dagli occhi spenti. Che si godano i loro semolini, la vita è un’altra cosa. E chi non mangia con noi peste lo colga.
Moderno e anticonformista, Tognazzi era attratto da tutto ciò che sapesse di nuovo e fuoriluogo. Dai gadget più folli come una pistola che sparava monetine a improbabili vetture come la Matra Simca giallo limone che gli conquistò i lazzi e i frizzi di amici, colleghi e parentado. Lo attraevano le bizzarrie, le diversità, le dissonanze; se qualcosa gl’interessava del giudizio altrui, di rado lo dava a vedere. Uomo dalle mosse tutt’altro che scontate, diede fiducia al giovane Pupi Avati, già reduce da due fallimenti al botteghino, e con lui s’imbarcò felice e contento nell’esperienza che poi tirò fuori l’asprigno e divertentissimo “La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone” (1975). E Tognazzi – racconta lo stesso Avati nel documentario – lavorò gratis, accettando di partecipare al film con il solo compenso delle percentuali sugli incassi, tutt’altro che probabili con Pupi Avati, dati i precedenti di allora. Lui, che ai tempi era uno degli attori più famosi e pagati d’Italia.
Dal racconto di Maria Sole emerge anche un Tognazzi a tratti insicuro, combattuto tra l’ansia epicurea e una più terragna umanità, brillante e anticonformista nella professione senza mai essere in questa men che rigoroso. Lo si capisce anche quando egli stesso racconta in un’intervista i lunghi mesi di prove per “Sei personaggi in cerca d’autore” che nel 1986 lo vide incassare un ottimo successo di critica e pubblico a Parigi. Terrorizzato da quello che definiva il suo “francese da turista”, il pensiero di dover recitare nella lingua di Molière (nel 1988 avrebbe poi anche interpretato L’avaro) lo spinse a passare giornate intere con il registratore in mano per assumere la maggior padronanza linguistica possibile.
Difficile associare Tognazzi a questioni metafisiche, pareva più un tipo da “il paradiso lo preferisco per il clima, l’inferno per la compagnia”. Ma suo pensiero, voce dal cor fuggita in un’intervista riportata nel documentario, lascia intendere profondità ben maggiori di quanto volesse far credere quando, interrogato a proposito di Dio, si lasciò sfuggire: “Di fronte alla disperazione c’è sempre un’alzata d’occhi al cielo. Qualcosa dovrà pur significare”. “Un uomo serio – per dirla con Michel Piccoli – per niente serio”, ma che uomo. E che attore.