Rifondare una politica atlantica per il bene del “mondo libero”
08 Ottobre 2009
Irving Kristol, scomparso recentemente e considerato il capostipite del neoconservatorismo, rimproverava agli europei l’incapacità teorica di rivolgersi agli Stati Uniti al fine di trarne ispirazione per l’innovazione politica. E sosteneva che proprio a causa di ciò il conservatorismo europeo era in condizioni peggiori ed era politicamente meno efficace che negli Usa. Gli intellettuali europei, le classi dirigenti, in sostanza, avevano mancato di cogliere la novità del neoconservatorismo e in genere la portata del dibattito apertosi in America all’indomani dell’11 settembre.
La Fondazione Magna Carta, la cui gestazione e nascita si collocano proprio nei primi anni del 2000, almeno in questo senso ha rappresentato un’eccezione. Dopo l’attentato alle torri gemelle ci parve subito che l’apparato teorico a nostra disposizione per capire quello che era successo e poteva succedere non fosse adeguato. Soprattutto in Europa dove il terrorismo internazionale era combattuto con mezzi ordinari di polizia mentre le nostre città albergavano già gli autori delle stragi di Londra e Madrid.
Non ci facemmo così alcuno scrupolo nel ritenere che la reazione “neoconservatrice” del primo mandato Bush fosse uno degli elementi di innovazione politica d’oltreatlantico che valeva la conoscere e interpretare. Nasce così nel 2003 la prima edizione della nostra conferenza dedicata alla Relazioni Transatlantiche, ripetuta poi ogni anno fino ad oggi. L’intento era allora come oggi molto semplice: esporci reciprocamente e senza remore, europei e americani, al vento delle idee nuove, delle nuove evenienze in una fase dove la nostra alleanza aveva da tempo cessato di essere obbligata e rituale ma doveva essere rinnovata e nutrita.
Nelle successive edizioni della nostra conferenza abbiamo vistola seconda amministrazione Bush succedersi alla prima, abbiamo visto le idee dei neocon alla prova in Afghanistan e poi in Iraq, nei rapporti con le organizzazioni internazionali, con Israele, con il mondo arabo. Abbiamo visto i limiti di quelle idee e gli errori degli uomini che le incarnavano, ma siamo ancora convinti che, nella situazione data, il valore delle tesi neoconservatrici resti un contributo importante e chi oggi ne celebra un prematuro funerale potrebbe essere presto smentito.
Dall’altro lato, durante quegli stessi anni, abbiamo visto le divisioni e le incertezze dell’Europa di Chirac e Schroeder, l’incapacità di sviluppare una politica estera comune, la sua progressiva perdita di identità e di radici mentre importanti città del vecchio continente si avviavano ad avere maggioranze di cittadini musulmani e immigrati di seconda o terza generazione mettevano bombe nelle stazioni e nelle metropolitane. E in genere abbiamo visto una povertà di idee nuove e originali, una riflessione tutta ancora chiusa negli schemi del secolo scorso, priva di innovazione. Almeno fino all’avvento di Nicolas Sarkozy e di Angela Merkel. Sarà un caso, ma la maggiore coerenza nelle scelte di politica estera di questi ultimi anni, l’impegno duraturo in Iraq e in Afghanistan, pagato caro a Nassiriya e a Kabul dai nostri soldati, almeno nell’Europa continentale, lo si deve proprio all’Italia di Berlusconi, dove la nostra fondazione ha svolto un piccolo ma significativo ruolo.
Quella di oggi è la prima edizione della nostra conferenza che cade sotto una amministrazione democratica, quella del presidente Barack Obama, e sono davvero molto felice di poter annoverare qui tra noi sia esponenti della nuova amministrazione che studiosi ed esperti provenienti dalle fondazioni che certo hanno contribuito ad ispirare e nutrire le scelte del presidente. Perché questo sia stato possibile – con i nostri fratelli americani – non è stato necessario abiurare le nostre scelte e le nostre solidarietà del passato.
E’ un’occasione importante che forniamo noi stessi e al dibattito pubblico nazionale quella che ci si presenta oggi e sono sicuro che sapremo trarne il massimo profitto. Non è un caso se da domani i nostri lavori saranno a porte chiuse: quello che la nostra Conferenza prevede è che ci si parli con grande franchezza come solo è possibile tra veri amici e grandi alleati. Tutto ciò che ci lega lo diamo per scontato e non per questo lo valutiamo di meno, ma ci interessa oggi più che mai capire cosa ci divide o ci allontana, esplorare le nostre reciproche incomprensioni e per quanto ci riguarda provare a sanarle.
Come il resto del mondo anche l’Italia ha salutato l’elezione di Obama con grande entusiasmo e con ancor più grandi aspettative. Il vice presidente Biden è stato facile profeta quando, poco dopo la sua elezione, disse: “Non passeranno sei mesi che il mondo metterà alla prova Barack Obama come fece con John Kennedy”. Così è stato: la Corea del Nord, l’Iran, l’Afghanistan, la Cina, la Russia, Guantanamo, la crisi finanziaria globale, hanno rappresentato in pochi mesi i diversi modi con cui il mondo ha messo alla prova Obama e ne ha potuto interpretare capacità e comportamenti.
L’Europa per nostra fortuna non ha il compito di mettere il presidente americano alla prova in questo stesso senso, eppure dal punto di vista del vecchio continente ho l’impressione che il presidente americano debba ancora essere compreso. Qualche giorno fa su un importante quotidiano italiano, Lucia Annunziata una giornalista che conosce molto bene l’America, ha scritto un editoriale dal titolo: “Ma Barack ci ama o non ci ama?”. Ecco, io forse non l’avrei messa egli stessi termini ma il titolo coglie un punto: cosa pensa il nuovo presidente dell’Europa? La sua formazione, la sua cultura, le emergenze della sua politica, in quale posizione mettono l’Europa nella sua agenda? Nel suo articolo la Annunziata scrive: “Con il presidente Bush i rapporti tra le due sponde dell’atlantico erano chiari ma non idilliaci; con il nuovo inquilino della casa bianca è il prefetto contrario: idilliaci ma non chiari”.
Barack Obama è invitato e atteso come una star in ogni cancelleria europea, i suoi discorsi vengono tradotti e ripubblicati sui principali quotidiani del continente, il suo stile, la sua famiglia sono al centro dell’attenzione spasmodica di tutti i media, ma sul versante della politica si fa ancora fatica a capire il nocciolo del suo messaggio.
I capisaldi della politica estera neoconservatrice forse non costituiscono una dottrina complessiva e possono chiaramente non essere condivisi, ma funzionavano abbastanza come punti cardinali: la chiara definizione di interesse nazionale, la distinzione netta tra amici e nemici, la scarsa o nulla fiducia nell’idea di “governo mondiale” e quindi nelle organizzazioni internazionali, e l’idea che la diffusione (non dirò esportazione) della democrazia nel mondo sia la migliore arma contro il rischi del terrorismo internazionale – di stato e non – e una forma di assicurazione a lungo termine per la stabilità e il benessere del pianeta.
Obama ha certamente messo in discussione alcuni di questi punti e forse anche con buone ragioni. Eppure su molti temi all’ordine del giorno della politica internazionale si avverte la necessità di nuovi punti fermi.
L’Afghanistan: proprio ieri si è compiuto l’ottavo anniversario del conflitto. Si tratta di una guerra fatta per necessità o per convinzione? Occorre dare credito alle allarmate richieste del generale McChrystal per un “surge” in stile iracheno o piuttosto avviare una lenta ma decisa exit strategy? E’ una guerra americana o della Nato? L’impressione è che Obama stia valutando tutte le opzioni, ma nel frattempo anche il fronte interno americano si complica e le congenite incertezze europee crescono a dismisura…
L’Iran: la recente conferenza di Ginevra è stata giudicata positivamente dagli Usa anche se sulla questione dell’arricchimento dell’uranio iraniano in Russia si è raggiunto solo un “accordo di principio”. Molti sostengono che questo tipo di risultati regalano tempo prezioso all’Iran nella sua corsa verso l’arma atomica. Preoccupazione confermate da quanto il Nyt ha svelato pochi giorni fa, rendendo noto un rapporto riservato dell’IAEA (International Atomic Energy Agency ) dove si dice che l’Iran è molto più avanti di quanto si ritenesse nello sviluppo del suo programma nucleare e che possiede ormai tutti i dati necessari a costruire l’arma atomica. Quanto si estende lo spazio del dialogo e quanto può durare la politica della mano tesa?
La Russia: è un tema che interessa particolarmente l’Italia perché si ritiene che agli occhi dell’America il governo Berlusconi venga giudicato troppo amichevole nei confronti di Mosca. E a leggere la prima intervista dell’ambasciatore Thorne sembra che questa preoccupazione sia stata confermata, almeno al Corriere della Sera. Poi però, a giudicare dalle successive iniziative del presidente Obama, sembra che quello che è stato un caposaldo della politica estera italiana dell’ultima fase – proseguire lo spirito di Pratica di Mare ed evitare una nuova stagione di guerra fredda – sia diventato, con la decisione del presidente americano di cancellare lo scudo spaziale anti missili balistici nell’Europa dell’est, con il conseguente venir meno della teorica minaccia missilistica di Kaliningrad, e con in ballo la concretissima questione dell’ammorbidimento del Cremlino sul tema delle sanzioni all’Iran, un capitolo che avvicina i due Paesi piuttosto che allontanarli. Al punto che se si volesse assumere una dimensione critica, ci si dovrebbe porre il problema di rassicurare quelle popolazioni dell’Est – come i polacchi e i cechi – che conoscendo bene la storia del Novecento non si sentono affatto tranquille.
Israele: e sempre alla ricerca di punti fermi, c’è un altro tema che oggi avvicina le politiche estere dell’America e dell’Italia e sul quale, in nome della tradizione atlantica, è bene porsi degli interrogativi. Quel che si sta provando a fare è sufficientemente chiaro. Con amicizia, verso gli uni e gli altri, dobbiamo incoraggiare l’America sulla strada, appena confermata da Obama all’Onu, di volersi direttamente impegnare per la pace: si riprenda il negoziato, senza precondizioni, considerando il presidente palestinese come il legittimo interlocutore per il suo popolo e la necessità che Israele non compia atti che possano irreversibilmente pregiudicare la definizione dei confini dei due Stati. Dobbiamo ora chiederci insieme quali frutti concreti questa strategia sta producendo.
L’Iraq, infine: è un esempio del fatto che al limite la democrazia si può esportare? Obama sembra averlo sostenuto in una recente intervista televisiva con David Letterman: “ L’Iraq non sarà perfetto – ha detto – ma grazie al sacrificio di quelli che vi hanno combattuto, gli iracheni hanno l’occasione di creare una democrazia funzionante…”.
Nessuna di queste domande ha un intento polemico e probabilmente a nessuna saremmo noi stessi in grado di dare risposte certe e univoche. Ma maggior ragione sono domande che vanno poste se si vuole tenere viva, operante e efficace quella che una volta qui in Europa si chiamava “politica atlantica” e che rappresentava un pilastro delle politiche estere dei paesi europei, mentre oggi è più faticoso individuarne i lineamenti.
Non ci sfugge l’evidenza del fatto che l’epicentro geopolitico planetario si è spostato verso il pacifico, ed è molto probabile che il presidente degli Stati Uniti cominci il suo quotidiano tour d’orizzonte guardando dalla Casa Bianca verso ovest, verso la Cina, la Russia, il medio oriente e arrivi all’Europa già sfinito da questo giro…
Ma è tutt’ora l’Europa che racchiude la massima concentrazione di paesi alleati su cui l’America può contare sia sul versante del soft power che su quello dell’impegno militare. Non ci siamo fatti convincere neppure per un istante dai nuovi teorici del declino dell’era americana, non è questo alle viste, ce lo dice la geografia, la politica, l’economia e un’analisi realista delle forze in campo. Ma neppure vogliamo arrenderci all’idea di un declino dell’Europa, alla sua marginalizzazione, alla sua perdita di ruolo e di voce. E per una buona ragione: ogni volta che Usa e Europa agiscono d’intesa non c’è maggiore forza capace di avere efficacia nelle crisi globali; quando Usa e Europa perdono quell’accordo non c’è altra forza capace di avere la stessa efficacia.
Per questo è giunto il momento di pretendere di più dalla nostra alleanza: gli europei non hanno più alibi, G.W Bush è uscito di scena e tutti quelli (non certo tra noi) che consideravano la sua America un buon motivo per restare a guardare oggi devono essere richiamati in campo; gli americani hanno un immenso e nuovo patrimonio di credibilità e di speranze da spendere sulla scena mondiale. Forse è ormai politicamente scorretto parlare di rimettere assieme l’Occidente, fatemi allora usare un’espressione che è un po’ passata di moda ma che racchiude ancora tutte le nostre ragioni per dire che è il momento di dare nuova forza all’unione del mondo libero.
Grazie a tutti e buon lavoro.