Rilanciamo la Costituente
18 Gennaio 2017
La situazione politica italiana è condizionata da una parte dall’emergenza dall’altra dalla necessità di costruire una prospettiva. Dell’emergenza ho già scritto: nel breve periodo si tratta di impedire che la crescente sfiducia dei cittadini verso le istituzioni dello Stato e della politica si esasperi al punto da diventare incontrollabile. Per questo motivo andrebbero evitate scelte sul sistema elettorale e comportamenti di partito, che paiano ispirati solo da interessi del ceto politico o di questo colluso con altri interessi particolari: e in questo senso è indispensabile non sottrarre quel piccolo elemento di indirizzo “maggioritario” della scelta del governo acquisito negli anni Novanta, proporre forme di candidatura e di indicazione degli eletti che non appaiano oligarchiche (meglio le pur imperfette preferenze che atti di arroganza verticistica), non delineare orizzonti consociativi che neghino al popolo la possibilità di indicare chi sta al governo e chi all’opposizione.
Se non si avranno comportamenti coerenti con questi criteri (e ciò richiede pure il fissare una data il più possibile vicina per rieleggere un parlamento ormai per l’opinione pubblica delegittimato) la crisi si avviterà e quella sorta di sindacato della rabbia sociale che è il grillismo avrà campo libero. Al momento con molta amarezza tocca annotare che sia a destra sia a sinistra si sta continuando soprattutto con atteggiamenti autocentrati che potrebbero avere effetti devastanti. Però, inoltre, affrontare l’emergenza non basta per contenere e superare la disgregazione italiana che deriva innanzi tutto dalla crisi dello Stato nazionale e dal rapporto ineguale con i maggiori partner dell’Europa a cui questa crisi dello Stato ci condanna.
Ed è dunque necessario riflettere su come collegare emergenza e necessità di dare una prospettiva alla comunità nazionale. Il che non è affatto semplice perché si tratta insieme di garantire una forte distinzione tra le forze politiche, l’unica via per assorbire il distacco della società da un ceto politico considerato autoreferenziale, e insieme realizzare le convergenze necessarie alla riforma dello Stato che definiscano un nuovo orizzonte per la nazione.
E tutto ciò va tentato considerando che anche il ceto politico prodotto dalla cosiddetta Seconda repubblica ha dimostrato una difficoltà di fondo a metter mano agli elementi superati degli ordinamenti della nostra Costituzione: le bicamerali sono fallite sia per veti di settori dello Stato (l’attacco di Gherardo Colombo alla presidenza di Massimo D’Alema) sia per la tendenza delle forze politiche a scambiare vantaggi politici immediati contro scelte di riforma costituzionale; i tentativi di cambiare la Costituzione da parte della maggioranza di governo sono falliti per la superficialità delle riforme proposte (la riforma del Titolo V), l’eterogeneità del progetto con annesso scarso impegno a difenderlo (la riforma del centrodestra del 2005); l’arroganza unita all’astrattezza della riforma Boschi e l’insensatezza renziana di trasformare una consultazione su una riforma costituzionale in un plebiscito su se stesso come se un minore politico italiano potesse interpretare il ruolo di una delle personalità fondamentali della Repubblica francese quale è stato Charles de Gaulle; il tentativo di un’intesa parzialmente meno condizionata, peraltro, dal quadro politico ( la formazione di una commissione di saggi nel 2013) non ha avuto successo perché Giorgio Napolitano non l’ha difesa né dagli interventi giudiziari (messa fuori gioco di Silvio Berlusconi come capo dell’opposizione) né dai tentativi di scambiare riforme costituzionali con il sostegno a vari governi (quello di Enrico Letta e poi quello di Matteo Renzi).
Ormai l’unica via rimasta a disposizione è quella di un’Assemblea costituente (con la subordinata di una Commissione costituente con meno poteri ma sempre eletta dal popolo) che separi la politica corrente da una ridefinizione sistemica degli ordinamenti definiti dalla Costituzione e che con l’autorevolezza conferita dal voto popolare possa contrastare interventi anomali di altri settori dello Stato (nonché di anomale influenze straniere). Sarà possibile intraprendere questa via? Non è affatto semplice. La disgregazione in sé è molto forte, i tentativi improntanti alla pura autoreferenzialità da parte del ceto politico e di quei settori che scambiano appoggi a questo “ceto” con difesa di interessi particolari, le influenze internazionali che hanno puntato a un indebolimento strutturale dell’Italia sia per semplificare le decisioni infranazionali sia per mettere le mani su un’economia ancora assai ricca, sono tutti fattori che spingono al pessimismo.
Resta il fatto che il voto del 4 dicembre ha dimostrato oltre a un’alta soglia di quella rabbia sociale di cui si è detto anche la vitalità di una certa cultura federalista ben presente innanzi tutto nel mondo cattolico lombardo-veneto (ma anche tosco-emiliano) e si sono espresse anche tracce di un neomeridionalismo sia liberale sia democratico (limitando certe tendenze “neocaciquiste” alla Vincenzo De Luca). Una parte non ancora fortissima elettoralmente della sinistra, poi, ha scelto il No in una prospettiva di riformismo costituzionale interessante e che corrisponde alla convinzione crescente nel socialismo europeo che la tentazione consociativistica è suicida.
Infine i settori del Sì che puntavano sul renzismo come il male minore – così settori intellettuali, del mondo dell’impresa (quelli autonomi dalla logica di scambio alla Vicenzo Boccia), e del mondo cattolico (si veda anche la maggiore disponibilità al dialogo rispetto all’arroganza renziana di questa area anche del Pd) – paiono disponibili a passare da mediocri riforme funzionalistiche come quelle proposte dal progetto Boschi, a scelte realmente sistemiche. Infine il quadro internazionale, dalla Brexit all’elezione di Donald Trump, ha indebolito la capacità del mondo tedesco e bruxellese legato alla mediocre leadership di Angela Merkel a consentire riforme italiane solo se subalterne a una crescita dell’egemonia della Germania e dunque a un ulteriore deperimento della nostra sovranità nazionale. Insomma la situazione politica italiana e internazionale offrono un varco a scelte di vera riforma della Costituzione, ma questo può essere utilizzato solo se si procede verso un’Assemblea costituente (o scelta analoga) che è il modo per resistere agli egoismi del ceto politico presente e all’ondata crescente di rabbia sociale.
Nonostante qualche condizione più favorevole non siamo di fronte a una strada semplice: molte sono le forze interne e internazionali che si oppongono alla riforma del nostro Stato (che deve avere questi tratti: centralità dei cittadini rispetto alla Repubblica dei partiti, forma di governo adeguatamente in grado di decidere anche per trattare alla pari con gli altri membri della Ue, rapporti bilanciati tra esecutivo e legislativo, sistema definito di autonomie e poteri indipendenti degli enti territoriali, sistemazione secondo principi liberaldemocratici dei vari ordinamenti dello Stato). Però avere consapevolezza dei problemi di fronte a noi e delle forze disponibili a una certa battaglia è già una buona base per operare. Che deve diventare però impegno soggettivo non solo pura acquisizione intellettuale, e deve esserlo in forma assai pluralistica senza però indebolire le alternative tra chi governa e chi si oppone che sono indispensabili sistemicamente e anche per affrontare l’emergenza dell’ondata di rabbia sociale crescente.