Rimettere l’università al centro dell’agenda

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Rimettere l’università al centro dell’agenda

08 Gennaio 2014

Considerato il difficile momento che il nostro Paese sta attraversando, non stupisce più di tanto che la crisi del suo sistema universitario desti scarso interesse nell’opinione pubblica. E’ soltanto uno dei tanti problemi da affrontare e, se si escludono gli addetti ai lavori come gli stessi docenti universitari, sono pochi coloro che pongono le sorti dell’istruzione superiore al centro dell’agenda politica. Me ne accorgo anche in quanto preside di una delle neonate “Scuole”, entità ancora non ben strutturate e nelle quali vengono accorpate le ex Facoltà – più o meno affini – che la riforma Gelmini ha abolito.

Eppure altre nazioni in cui l’università ha problemi analoghi stanno cercando di trovare soluzioni. In genere, all’estero è più forte la consapevolezza che il futuro di una nazione dipende in gran parte dal poter disporre di giovani adeguatamente istruiti e, soprattutto, in sintonia con il mercato del lavoro.
Nessun dubbio che il nostro sistema universitario sia stato gestito male nel corso degli ultimi decenni, punendo in tanti casi i meritevoli e premiando gli incapaci. Non è solo colpa dei “baroni”, come tutti credono, giacché i sindacati hanno giocato un grande ruolo nel processo di deterioramento. Per tacere di alcuni politici che hanno in certi casi utilizzato gli atenei per fini personali.

Né vale invocare una maggiore autonomia – per quanto “responsabile” come hanno fatto i rettori riuniti nella CRUI (Conferenza Rettori Università Italiane). Tale invocazione ha senso soltanto se si sottolinea con forza l’aggettivo “responsabile”, poiché è un dato di fatto che il mondo universitario non ha in genere utilizzato l’autonomia in modo virtuoso. Spesso, da noi, l’autonomia viene scambiata per licenza di fare “gli affari propri”. Equivale, insomma, a un “rompete le righe” che porta a situazioni caotiche, in cui non si capisce più a chi spettino le funzioni di controllo e il potere di far rispettare le regole.

Una volta poste queste doverose premesse, occorre però aggiungere che il parlamento non sembra rendersi conto della situazione. Come se non bastassero le centinaia di milioni di euro tolti al Fondo di Finanziamento Ordinario, principale fonte di sostentamento delle università, i tagli si sono poi abbattuti anche sulle risorse destinate ai servizi per gli studenti, borse di studio e alloggi in primis.

Quali le conseguenze? Sgombriamo subito il terreno da possibili equivoci. In Italia si parla molto di “diritto allo studio”, dando a tale espressione un significato assai vasto come se tutti, dalle scuole materne sino alle aule universitarie, possedessero tale diritto “a prescindere”. In realtà la Costituzione dice che “i capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. In altre parole si riconosce che i giovani provenienti da famiglie di modeste condizioni economiche possiedono il citato diritto. Ma a un patto: che siano appunto capaci e meritevoli. E tale diritto si garantisce soltanto con un finanziamento sotto forma di borsa di studio, e con la possibilità di trovare alloggio a condizioni favorevoli in residenze universitarie.

Finora gli atenei italiani ci sono riusciti pur tra mille difficoltà e con somme a disposizione sempre più esigue. I tagli avranno come conseguenza il fatto che i giovani capaci e meritevoli – ma di modeste condizioni economiche – si dovranno arrangiare (per usare il titolo di un celebre film, girato da Mauro Bolognini nel 1959, con Totò e Peppino De Filippo).

Una prospettiva davvero inquietante, che certo accentuerà il già notevole calo delle iscrizioni registrato nel nostro Paese negli ultimi tempi. E’ arduo prevedere se un’inversione di tendenza sia possibile. Gli ultimi ministri titolari del MIUR hanno continuato a lanciare allarmi, ma le lamentazioni non hanno sortito effetti di alcun tipo.

La grande domanda che resta sullo sfondo è sempre la stessa. Che cosa s’intende fare dell’università italiana? Esistono programmi abbastanza precisi che ci consentano di progettare il futuro nell’arco, diciamo, dei prossimi 10 anni? A me non pare, pur seguendo il problema con attenzione anche per ragioni di ordine professionale. Forse qualcuno pensa che sia possibile andare avanti senza università: lasciamo che si spenga lentamente e poi risorgerà dalle ceneri come l’araba fenice.

Sarebbe una strategia suicida perché destinata a danneggiare l’intero Paese. Né si può riporre troppa fiducia in un processo di privatizzazione, almeno a breve termine. L’Italia è ben diversa dagli Stati Uniti, con la loro tradizione di investimenti massicci nel comparto dell’istruzione e della ricerca spesso a puro titolo di mecenatismo. Da noi si stenta a comprendere che un ateneo non è una fabbrica di automobili o di frigoriferi. L’investimento è remunerativo nel lungo periodo, e se si ha l’accortezza di capire che può mutare il destino delle prossime generazioni.