Rispunta Kissinger: l’Afghanistan rischia di essere come il Vietnam
30 Giugno 2010
Anche Henry Kissinger a proposito della crisi afghana – in un articolo uscito sul Sole 24 ore del 26 giugno, che riprendeva il Wall Street Journal di due giorni prima – minaccia lo spauracchio del Vietnam. L’incubo di ricadere nel pantano della guerra indocinese è infatti una minaccia sempre presente nella psiche dell’establishment americano, trauma mai veramente superato nemmeno dopo la vittoriosa prima guerra del Golfo del 1990 che segnò il successo della dottrina Weinberger-Powell esatto opposto di ogni strategia coerente di contro-guerriglia o di contro-insorgenza come si dice adesso e anch’essa figlia di quella tragedia. Secondo quelle linee, gli Stati Uniti, per evitare il ripetersi di un altro Vietnam avrebbero dovuto utilizzare la forza solo se si fossero verificate una serie di condizioni, altamente restrittive. In pratica, la lezione che gli stati maggiori e la Casa Bianca trassero dal Vietnam fu estremamente lineare: mai più combattere, magari da soli, guerre di contro-insurrezione con forze terrestri in paesi del terzo mondo dove non erano in gioco interessi vitali degli Stati Uniti. Poi, come si sa, arrivò l’11 settembre e le cose cambiarono.
Ora l’ex segretario di Stato di Nixon, uno dei protagonisti di quella guerra e artefice del disimpegno, avverte, secondo alcuni giornalisti e commentatori, il pericolo del ripetersi della tragedia. La guerra infatti dura da ben nove anni, costa gli USA qualcosa come 70 miliardi di dollari l’anno; uno dei signori della guerra di Kandhar, nonché trafficante d’oppio, è il fratello del presidente, e per giunta giugno è stato il mese che ha visto il più alto numero di caduti dall’inizio dei combattimenti. Ben più grave è lo stop che la strategia di McCrystal, nonostante i rinforzi avuti, ha dovuto subire a Marja dove, dopo aver cacciato i talebani, gli americani non sono riusciti a insediare nessun governo civile a causa della pretesa di imporre personale scelto dal governo centrale, visto dai locali come corrotto e sordo alle loro richieste.
In realtà l’articolo è complesso perché complessa è stata quella guerra. Kissinger dell’esperienza vietnamita ricorda un punto centrale: “l’umore dell’opinione pubblica che vira repentinamente (e senza che vi sia veramente un rapporto con la situazione militare sul campo) da una situazione di ampio consenso ad attacchi contro l’inadeguatezza degli alleati, fino alle richieste di una exit strategy dove quello che conta non è la strategy ma l’exit”. Il crollo del consenso interno è infatti uno dei due pericoli sempre presenti nelle guerre intraprese per scelta e non per necessità, cioè non per difendere immediatamente il proprio paese da un attacco esterno. E qui l’ex diplomatico fa un osservazione estremamente interessante: che il venir meno del supporto dell’opinione pubblica non è una diretta conseguenza della guerra, cioè il conflitto può anche andare bene o per lo meno non essere a sfavore degli americani, ma ciononostante si può assistere, come in effetti avvenne nel Vietnam, ad un rifiuto totale della guerra da parte della popolazione che porta ad un disimpegno “a prescindere dal reale andamento dei combattimenti sul campo”, per citare di nuovo Kissinger.
Il tempo, insomma, è il grande nemico degli Stati Uniti. Questo lo aveva già capito Sun Tzu cinque secoli avanti Cristo: “Guerra protratta a lungo: le tue forze scemeranno e la tua spada perderà il filo, anche se la vittoria ti arride. Assedio protratto a lungo: il tuo vigore verrà prosciugato. Campagna protratta a lungo: le risorse si esauriranno… Ho udito di operazioni militari maldestre ma rapide, mai ho visto un’operazione abile che fosse anche protratta. Un’operazione militare protratta nel tempo non è mai vantaggiosa per una nazione”. Adesso che ad affrontarsi sono due avversari con un rapporto assolutamente opposto con il tempo, quell’avvertimento risulta ancora più vero. Il tempo non è recuperabile, è l’elemento più intrattabile della strategia. La teoria occidentale della guerra dedica poca attenzione alla dimensione temporale della guerra, ma il tempo diventa un’arma in mano agli insorti per colmare le proprie debolezze. La guerra di contro insurrezione è lenta, noiosa, può registrare brusche fermate, richiede pazienza. Ma questa filosofia è l’esatto opposto della concezione americana della guerra, del così detto “american way of war”, tutto basato sulla supremazia tecnologica, dei sistemi d’arma, organizzativa capace di tradursi in una mostruosa potenza di fuoco utilizzata per raggiungere il risultato – la sconfitta militare del nemico – il più velocemente possibile.
L’altro pericolo da cui mette in guardia Kissinger è rappresentato dalla sopravvalutazione della possibilità di ridisegnare le strutture sociali e istituzionali dell’Afghanistan, a partire dal giudizio sul presidente Karzai. La strada del nation building è impraticabile e velleitaria, perché l’Afghanistan non ha uno stato centrale, ma è composto di etnie e tribù diverse fiere e bellicose e perché è un paese dalla geografia impossibile con una popolazione dispersa in villaggi tra le montagne. La soluzione allora per Kissinger non consiste nel fissare a priori i tempi di un ritiro unilaterale, ma nel cambiare approccio politico. Da una parte, è necessario partire dal basso, rafforzando i governi provinciali molto più vicini alla popolazione locale del lontano, ostile e corrotto governo di Kabul, passo che permetterebbe di aggirare il problema Karzai; dall’altra, coinvolgere gli stati confinanti nella lotta contro i talebani. A partire dalla Russia impegnata nel Caucaso contro gli estremisti sunniti vicini ad Al Qaida, passando dai cinesi che vedono con spavento crescere l’influenza religiosa tra i venti milioni di mussulmani, dell’India che i talebani minacciarono direttamente sostenendo la guerriglia nel Kashmir, dello scita Iran nemico acerrimo dei seguaci del mullah Omar – si ricordi il massacro di Herat nel 1998 ad opera degli studenti coranici – fino ad arrivare al Pakistan.
Se il primo cambiamento di strategia che passa dal rafforzamento del potere locale è possibile perché in fondo coinvolge soltanto la volontà degli alleati ed è coerente con gli insegnamenti della dottrina Petraeus elaborata in Iraq, il momento del concerto dell’azione in Afghanistan con gli altri stati e le due potenze internazionali è molto più difficile per una serie di dinamiche che si intrecciano tra loro in modo incredibile. Innanzitutto, un simile cambiamento significa una profonda modifica della politica americana nella regione che finora si è svolta sotto il segno dell’autarchia, a parte l’alleanza con i regimi sunniti del Golfo in funzione anti iraniana e scita. In secondo luogo, tutti quei paesi citati, ad esclusione dell’India, hanno visto con soddisfazione l’ingarbugliarsi della situazione intorno agli americani. I russi e i cinesi, perché così la super potenza vede le sue energie assorbite in grande parte a districare la matassa delle guerre asiatiche; gli iraniani, che pur nemici dei talebani, non hanno disdegnato di aiutarli anche militarmente, pronti a fomentare le guerriglie contro gli Stati Uniti in tutto il mondo, da Gaza al Libano all’Iraq all’Afghanistan, utilizzando così ogni leva pur di arrivare all’obiettivo di potenza nucleare regionale; per finire all’ambiguo Pakistan, dove sia parte della popolazione specialmente nel nord che alcuni apparati dello stato aiutano tutt’ora i talebani. Se poi si aggiungono le relazioni difficili e antagoniste tra la maggioranza di questi stati – India Pakistan, India Cina, Pakistan Iran, Pakistan India – la risoluzione del problema diventa una sfida veramente incredibile, più difficile di quella ai tempi del “grande gioco” che in fondo si svolgeva solo tra due potenze, la Russia e la Gran Bretagna, e vedeva quei paesi solo come sfondo.
Se il confronto allora con il Vietnam è lecito, lo è proprio perché mostra che adesso gli americani hanno risolto solo uno dei problemi che quella guerra aveva messo in risalto, la mancanza di una strategia militare di contro-insorgenza che avesse al centro la popolazione locale e non fosse in contrasto con gli standard umanitari democratico liberali; ancora però non sono riusciti a trovare una risposta al lato politico che sempre accompagna le guerre limitate e le guerre di contro-insurrezione in modo particolare. Qual è l’obiettivo politico per cui si combatte? Il suo raggiungimento è realisticamente possibile? E quali strumenti militari sono coerenti con quel fine? E il governo di Washington riesce a far sostenere al popolo americano il proprio esercito per tutto il tempo necessario?