Ristoranti di nouvelle couisine che meritano l’alloro
10 Maggio 2009
Nella rubrica della scorsa settimana avevo cominciato a dar conto del tentativo di conversione verso la nouvelle cuisine, condotto da taluni solleciti amici, devoti seguaci di tale “credo” gastronomico. Come già dissi, le menzionate amichevoli cure mi hanno condotto, in rapida successione, in due locali, uno milanese, l’altro romano. Come già sanno i lettori, dall’esperienza di rito ambrosiano – secondo un giudizio lealmente condiviso anche dai ferventi missionari che mi hanno preso in cura – ho potuto trarre buone motivazioni per mantenere, anzi rafforzare, i convincimenti che, a suo tempo, furono posti a base della rubrica. Con pari lealtà debbo ammettere che dal rito romano, celebrato nel ristorante All’Oro, sono uscito ancora integro nelle mie posizioni, ma comunque favorevolmente colpito della professionalità espressa dal locale, che ci ha ospitati. Ciò, pur dovendo manifestare qualche nota critica, in ottica, peraltro, assolutamente costruttiva.
A dire il vero, il primo problema datoci dall’All’Oro è stato riuscire ad individuarlo. Ci troviamo nell’elegante e borghesissima Roma del Quartiere Parioli, in Via Eleonora Duse, strada che scende dai giardini del panoramico Piazzale delle Muse. La strada è di qualche notorietà tra i ghiottoni, perché, nella sua parte bassa, alza la propria insegna una nota ed apprezzata gelateria. Questo ormai storico esercizio da molti decenni è punto di riferimento tanto per il consumo immediato di coni e coppette, quanto – e soprattutto – , per l’asporto di ricche vasche, stracolme di creme, che sempre assicurano la sincera gratitudine dei padroni di casa e degli altri ospiti alle cene, alle quali si abbia la buona idea di portarle in omaggio.
L’All’Oro si colloca proprio accanto alla gelateria, con una porticina di ingresso di tale discrezione che, specialmente la sera, diviene quasi invisibile. Tutto il ristorante è di dimensioni lillipuziane, sostanzialmente grande quanto un vagone ristorante, la cui struttura ricorda assai da vicino, con buona pace degli architetti che certamente vi si sono adoperati. Da poche settimane, il locale ha festeggiato i due anni di vita e sembra avviato ad un positivo consolidamento, per favorire il quale non sarebbe male curare una miglior aspirazione degli odori di cucina. L’ambiente, improntato ad assoluto minimalismo, giocato sui toni del bianco e del grigio, è arredato con tavoli (minuscoli), poltroncine (parimenti) e divani (accoglienti), tutti ricoperti da un materiale che riproduce il pellame di coccodrillo, scaglie comprese. Il “coccodrillato” contiene un intrinseco rischio di kitsch, che, invece, viene superato dall’insieme. Il ristorante è, tutto sommato, elegante e risulta se non comodo, senz’altro piacevole. Va, tuttavia, assolutamente stigmatizzata la circostanza che, nell’apparecchiamento dei tavoli, non trova utilizzo tovaglia alcuna, neppure le orrende striscioline di stoffa, che pure vanno ora tanto per la maggiore. Al di là di generali considerazioni di carattere igienico ( che non giudico superate dal pur accurato passaggio di un panno imbevuto da – spiacevolmente – odoroso liquido detergente/disinfettante) sfido chiunque ad ossigenare il vino, con il consueto moto rotatorio del bicchiere, appoggiando la base del calice su una superficie che offre, grazie anche alle scaglie, una buona dose di attrito.
Il posto orbita intorno alle apprezzabili arti di uno chef quarantenne, dalle variegate esperienze, l’ultima delle quali realizzata nella scuderia del “Baby”, prestigiosa e valida location romana di Alfonso Iaccarino, dalla quale proviene anche il cortesissimo maitre. Il menù offerto è, ovviamente, minimalista quanto il locale e segue l’andamento delle stagioni. Tra gli antipasti meritano un incontro il filetto di tonno affumicato con lo zabaione al limone, il bollito di manzo con parmigiano, farina di capperi e cipolla rossa di Tropea, il cucciolone burro e acciughe, con zuppa di broccoletti e aggiunta di provola affumicata. Tra i primi piatti vanno assaggiate le orecchiette al sugo di astice e ‘nduja, i ravioli di mascarpone, ragù d’anatra e riduzione di vino rosso; tra i secondi l’ottima spigola in porchetta con zuppa alla carbonara e tartufo nero, il maialino da latte con composta di mele, lime candito e salsa alla senape, la quaglia, dalla descrizione chilometrica – noioso vezzo di questa tipologia di ristorazione – ma dal sapore che consente di perdonarne la denominazione in menù, la guancia di manzo con crema di castagne e pan di spezie liquido. Per i dessert meritano encomio la creme brulèe con ragout di mele e cannella e ricordo la torta della nonna con la zuppa di ricotta. Valida la selezione di formaggi con marmellate varie.
La cantina presenta un’offerta quantitativamente contenuta, ma di qualità, con ricarichi abbastanza accettabili. La già sottolineata ridotta dimensione del locale (la capienza è di una ventina di coperti) impone la prenotazione, effettuabile con serenità anche da parte di chi non ami la tipologia di gastronomia praticata dallo chef. Le capacità professionali superano, infatti, la necessità “ideologica” di essere originali ed estrosi ad ogni costo. C’è da domandarsi quali straordinari risultati si potrebbero assaporare se tanta maestria trovasse applicazione in più tradizionali preparazioni. Il locale si colloca in una fascia di costo media, tendente all’alto, con un buon rapporto qualità/prezzo.
All’Oro – Via Eleonora Duse, 1E – telefono: 06/97996907 – Chiuso la domenica e sabato a pranzo