Ritratto del neovicepresidente Pd Scalfarotto e del suo gatto Fidel
11 Novembre 2009
Chi lo conosce assicura che Ivan Scalfarotto è un tipo spiritoso e intelligente. Uno di quelli che di solito piacciono a Berlusconi perché la passione politica non ne ha fatto (ancora) un politicante di professione e perché ha già dimostrato in passato, in mancanza di incarichi di rilievo, di essere capace di rimboccarsi le maniche e mettersi a lavorare nella società civile, piuttosto che vegetare nelle polverose anticamere di partito.
Dieci anni abbondanti nella direzione risorse umane di Citigroup, equamente divisi tra Milano, Mosca e Londra, da cui è rientrato pochi mesi fa, giusto in tempo per sostenere la candidatura di Ignazio Marino alle primarie del Pd e vedersi attaccare da Pier Luigi Bersani i galloni di vicepresidente del partito, insieme alla franceschiniana Marina Sereni, affiancando Rosy Bindi.
“Devo dire con grande sincerità che l’elezione di Bersani mi pare l’ennesima scelta di conservazione fatta da un paese impaurito, e la paura, si sa, è un formidabile moltiplicatore della conservazione”, aveva detto Ivan all’indomani delle primarie, salvo accettare ben volentieri il suo nuovo status, figlio di una sana e tradizionalissima scelta di conservazione e di spartizione, operata dal leader neoeletto per dare adeguata rappresentanza alle mozioni alternative alla sua e per non dare troppo l’idea di una imminente restaurazione dirigistica e un po’ nostalgica del partito.
Ma non divaghiamo. Scalfarotto deve in parte le sue fortune al buffo cognome, una sorta di storpiatura da avanspettacolo di due dei maggiori numi tutelari del centrosinistra. Se non fosse stato per quello, probabilmente, in pochissimi si sarebbero ricordati dello sconosciuto blogger che tentò di sfidare cinque big della politica alle primarie dell’Ulivo che incoronarono Romano Prodi nell’autunno del 2005, ottenendo peraltro un trascurabile 0,6%. Nessuno, allora, si informò circa le inclinazioni sessuali del buon Ivan, anche perché l’omosessualità in sé e per sé non fa più notizia né scalpore neanche a palazzo, per fortuna. Nel frattempo, però, Scalfarotto ne ha fatto una sorta di battaglia civile: ha presieduto “Pride”, il gruppo di dipendenti gay, lesbiche, bisessuali e transessuali della Citigroup a Londra, lo ha fatto sapere in giro senza diventare per questo una macchietta e senza incoraggiare alcuna curiosità pruriginosa, e ha messo sul tavolo del Pd tutto ciò, riuscendo a farsi candidare, senza essere eletto, alle elezioni politiche del 2008 e alle europee del 2009. Nella scelta di farlo vicepresidente del partito c’è di certo anche la politicamente correttissima attenzione alle minoranze (e in fondo lo stesso Franceschini pochi giorni prima del voto aveva annunciato che il nero Touadì sarebbe stato il suo vice in caso di vittoria), al di là del dubbio feeling personale e politico con Bersani.
Una scelta coraggiosa e apparentemente inappuntabile, se non ci fosse stato quel fastidioso inciampo del crocifisso. Già, perché la polemica nata all’indomani della pronuncia della Corte Europea di Strasburgo, con il coro quasi unanime della politica italiana in difesa di una tradizione tanto radicata quanto innocua, al quale si è doverosamente unito il neosegretario del Pd, ha registrato la voce dissonante proprio di Scalfarotto, che da anni ha a che ridire sulla presenza di questo simbolo religioso nelle scuole. “Occhei, occhei: il crocifisso è laico – aveva scritto sarcasticamente dopo la sentenza del Consiglio di Stato che aveva bocciato il ricorso – Immagino il chador sia un lancio di Dolce & Gabbana per la prossima primavera/estate, Budda un lottatore di sumo e la quaresima l’ultima idea della Dottoressa Tirone. Proprio non capisco perché quest’anno abbiamo deciso di organizzare le olimpiadi visto che per l’occasione avremmo potuto mettere su delle così belle crociate”.
Proprio così: Scalfarotto è un tipo spiritoso, oltre che intelligente. Uno che può piacere alla sinistra depressa del post Veltroni e che probabilmente oggi piace ancora di più a Berlusconi, visto che alla prima occasione ha messo in luce quelle contraddizioni interne al Pd che l’elezione di Bersani e l’abbandono dei teodem vicini a Rutelli avrebbero dovuto eliminare. Non per niente Ivan racconta con orgoglio di aver chiamato il suo gatto Fidel. Come Castro, certo. E come Confalonieri…