Robert Mugabe. Il Mandela andato a male

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Robert Mugabe. Il Mandela andato a male

16 Dicembre 2007

Asse del male: così nel 2002 George W. Bush
definì i regimi accusati di sponsorizzare il terrore e minacciare
l’America e i suoi alleati con armi di distruzione di massa. La Casa Bianca
affrontava la sfida di una Quarta guerra mondiale avendo di fronte non
un nemico definito, bensì una pluralità di soggetti sfuggenti, in parte
collegati tra loro e in parte no. Dell’Asse del
male facevano parte anche Iraq, Iran e Corea del Nord a cui si aggiunsero Libia, Siria e Cuba,
Bielorussia, Zimbabwe e Myanmar. Ma è evidente che ormai erano della
partita anche vari attori non statuali, da Al Qaida a Hezbollah. Questo
libro passa in rassegna i leader di questi regimi e movimenti:
dall’emiro fantasma Mullah Omar allo sceicco dei kamikaze Sayed Hassan
Nasrallah; dall’ultimo dittatore europeo, Aleksandr Lukashenko,
all’ultimo dittatore africano, Robert Mugabe, ai leader di Hamas e del
regime del Sudan. Fino a chi nell’asse del male ci si mette
polemicamente da solo, come il leader venezuelano Hugo Chavez. Vi proponiamo uno dei ritratti che l’autore, Maurizio Stefanini, ha dedicato a Robert Mugabe.

«L’Africa agli africani, lo Zimbabwe agli zimbabweani». In nome di questo slogan Robert Mugabe non solo ha tolto le aziende ai proprietari terrieri di origine europea, ma dal 2000 ha anche iniziato a privare della cittadinanza un bel po’ di neri: almeno due milioni di persone, un abitante su quattro. Secondo il governo si tratta di oriundi dei Paesi vicini, soprattutto Malawi, Mozambico e Zambia, che nel prendere la cittadinanza avrebbero dimenticato di rinunciare espressamente a quella d’origine. Totemless li definisce con disprezzo il presidente nei suoi discorsi. Privi cioè di uno dei venticinque mitupo, o come direbbero appunto i nativi d’America totem, che definiscono il lignaggio dei clan degli shona: l’etnia maggioritaria, cui dice di appartenere lo stesso Mugabe. Secondo l’opposizione, il passaporto lo tolgono solo a chi sta contro il potere. O se no, il primo a essere privato della cittadinanza avrebbe dovuto essere lo stesso Mugabe. Suo padre, è saltato fuori di recente, si chiamava in realtà Masuzyo Matibili, era nato nel Malawi, ed era di etnia non shona ma tumbuka.

Robert nasce il 21 febbraio 1924 alla missione Kutama. È un’istituzione gesuita a un’ottantina di chilometri a sud-ovest di Salisbury, capitale dell’allora Rhodesia del Sud, che dal 1° ottobre dell’anno prima è passata dall’amministrazione della British South Africa Companyallo status di colonia autonoma britannica. Presso i gesuiti, che trovando impronunciabile il suo nome originale lo hanno ribattezzato Gabriel, il signor Matibili fa il falegname. Ma quando il secondogenito Robert ha 6 anni lui lascia la moglie Bona e i cinque figli, per mettersi con un’altra donna da cui ha una seconda famiglia altrettanto numerosa. I bambini abbandonati verranno dunque allevati da un altro lavoratore della missione, che ha il cognome shona di Mugabe. Ed è con il suo «totem» che il futuro presidente sostituirà l’originario Matibili, mantenuto invece dal fratello maggiore Amon con il semplice adattamento fonetico in Matibiri.

Pur abbandonato dal padre, Robert è un privilegiato nel poter crescere in una missione cattolica. Iniziato agli studi da padre O’Hea dalle evidenti origini irlandesi, con una bulimia di titoli che forse cela un bisogno di certezze, questo ragazzo dal cognome cambiato farà una curiosa collezione di lauree. La prima, in Inglese e Storia, la prende nel 1951 all’Università sudafricana di Fort Hare. La seconda, in Educazione, arriva nel 1953 per corrispondenza. Della terza, in Economia, inizia a fare gli esami pure per corrispondenza presso l’Università di Londra mentre insegna in un college nella Rhodesia del Nord, l’attuale Zambia. Ma il titolo lo prende nel 1958 in Ghana, dove è andato a insegnare in un istituto magistrale. L’anno prima la Costa d’Oro è diventato il primo Paese dell’Africa subsahariana a conquistare l’indipendenza. Per affermare ancora di più la propria volontà di rottura con il retaggio coloniale ha dunque cambiato il suo nome per quello di un’impero africano medievale: senza curare che quell’antico Ghana si trovava da tutt’altra parte dell’Africa occidentale, più o meno tra gli attuali Mali e Mauritania. E al potere c’è Kwame Nkrumah, il cui radicalismo fonde un’originale interpretazione

del marxismo al sogno panafricano di un continente unito.

Mugabe ha in realtà già iniziato a interessarsi alla politica dal tempo dell’università in Sudafrica, dove sono stati suoi compagni di studi alcuni personaggi destinati a entrare nella storia del continente: da Julius Nyerere, che sarà leader del Tanganica nel 1960, per poi diventare al momento della fusione con Zanzibar presidente della nuova Tanzania tra il 1964 e il 1985; a Robert Sobukwe, fondatore del partito di opposizione all’apartheid in Sudafrica Pan Africanist Congress (Pac); a Kenneth Kaunda, presidente dello Zambia dal 1964 al 1991.

Profondamente infervorato, il giovane insegnante cattolico conosce anche Sally Hayfron , che diventa la sua prima moglie. Imbevuto di fede rivoluzionaria, nel 1960 dà le dimissioni per tornare in patria a militare nel National Democratic Party (Ndp).

Il padre della patria

Nella Rhodesia del Sud, posta dagli inglesi nel 1953 in una federazione con Rhodesia del Nord e Nyasaland, nel 1957 è stato infatti costituito un Southern Rhodesia African National Congress che si ispira all’Anc sudafricano e chiede l’indipendenza. Messo fuori legge nel 1960, è stato ricostituito come Ndp, e Mugabe vi lavora da segretario alla Propaganda. Nel 1961 il governo della colonia, finora gestito dai soli bianchi, offre un compromesso che darebbe l’elettorato attivo a tutti i neri e quello passivo a quelli con titolo di scuola media superiore, rinviando la democrazia piena a data da stabilire.

Il partito si spacca, e Mugabe capeggia l’ala più radicale%2C contraria a ogni cedimento. L’Onu chiede allora al Regno Unito di sospendere la nuova Costituzione, ma il governo coloniale risponde mettendo al bando anche l’Ndp.

Di nuovo il partito è ricostruito con un altro nome: Zimbabwe African People’s Union (Zapu). E Mugabe è ancora segretario alla propaganda. Ma nel 1962 arriva un altro provvedimento di scioglimento. Stavolta Mugabe è condannato a tre mesi di soggiorno obbligato, ma riesce a scappare in Tanganica, indipendente dall’anno prima, dove nel frattempo lo Zapu ha stabilito un quartier generale in esilio. Per solidarietà panafricanista il governo mette la radio nazionale a disposizione dello Zapu, e le trasmissioni di propaganda sono affidate appunto a Mugabe.

Ma quasi subito il partito è travagliato da una dura polemica interna. Nel 1963 l’ex compagno di università di Mugabe Herbert Chitepo e il pastore metodista Ndabaningi Sithole se ne vanno sbattendo la porta in polemica con il leader Joshua Nkomo: già dirigente del sindacato ferrovieri e anche lui studente a Fort Hare, anche se di qualche anno più anziano di Mugabe. Nell’agosto del 1963 nasce dunque lo Zimbabwe African National Union (Zanu): Sithole presidente onorario; Mugabe segretario generale; Chitepo presidente.

Le ragioni del dissenso non sono del tutto decifrabili. Un’interpretazione è che lo Zanu contestasse la lotta armata iniziata dallo Zapu in favore di un approccio più moderato: il 5 luglio 1963 la Federazione della Rhodesia e Nyasaland si è infatti dissolta, ed è iniziato il processo che entro il 1964 porterà all’indipendenza la Rhodesia del Nord con il nome di Zambia e il Nyasaland con quello di Malawi sotto un governo nero, e c’è la speranza di poter fare altrettanto nella Rhodesia del Sud.

Ma abbiamo visto che Mugabe si è già distinto come radicale, e d’altra parte in futuro lo Zanu avrà un’immagine più estremista dello Zapu: incluso in quell’asse di partiti antiapartheid di stampo maoista di cui fanno parte anche il Pan Africanist Congress (Pac) e l’Unione per l’indipendenza totale dell’Angola (Unita), piuttosto che nel blocco filosovietico di African National Congress (Anc), Movimento popolare di liberazione dell’Angola (Mpla) e Zapu. È però vero che il filosovietico Fronte di liberazione del Mozambico (Frelimo) si alleò invece allo Zanu, seguendone le sue stesse tattiche. Nemmeno è soddisfacente quella contrapposizione etnica tra gli shona dello Zanu e gli ndebele dello Zapu che pure si affermerà in seguito, visto che Sithole è un ndebele come Nkomo. Si è detto pure che lo Zanu non condivideva la scelta di Nkomo di privilegiare la lotta dall’esilio. Tutto sommato, la spiegazione più convincente resta quella delle rivalità personali.

Mentre Zanu e Zapu inziano a scontrarsi anche dal punto di vista fisico, nell’aprile 1964 diventa primo ministro Ian Smith, leader di un estremista Rhodesian Front che è pronto a proclamare un’indipendenza anche unilaterale pur di non cedere il potere alla maggioranza nera. Sia lo Zanu sia lo Zapu sono messi fuori legge, i principali leader neri finiscono in carcere, e l’11 novembre 1965 Smith dichiara infine l’indipendenza della Rhodesia, sotto un regime di apartheid ispirato a quello sudafricano. Lo stesso anno inizia la guerriglia su larga scala.

È la cosiddetta Bush War: la «Guerra della boscaglia». Lo Zimbabwe African National Liberation Army (Zanla), ala armata dello Zanu, recluta soprattutto shona. Equipaggiato da Cina e Corea del Nord, agisce dalla Tanzania, e utilizza la tattica maoista della guerra popolare prolungata, con la politicizzazione dei contadini. Lo Zimbabwe People’s Revolutionary Army (Zipra), ala armata dello Zapu, è reclutato invece soprattutto tra gli ndebele. Equipaggiato da Urss e Germania orientale, agisce dallo Zambia, affiancando alla guerriglia la guerra convenzionale e il terrorismo. Dopo il 1974 lo Zanla acquisisce basi anche in Mozambico, mentre ufficiali di entrambi i gruppi sono addestrati nell’Etiopia di Haile Marian Menghistu, che, infatti, dopo aver perso il potere sarà proprio nello Zimbabwe di Mugabe che troverà asilo.

Mentre il conflitto divampa Mugabe in carcere approfitta del tempo libero per arricchire la sua collezione di lauree per corrispondenza con altre due: in Diritto e in Amministrazione, entrambe all’Università di Londra. Sta per prendere anche un master in Diritto, ma lo interrompe quando ha l’occasione per scappare in Mozambico, dove prende direttamente in mano la conduzione della lotta armata e del partito.

Sithole è stato intanto epurato, mentre Chitepo salta in aria nel marzo 1975 in un attentato allora attribuito ai servizi rhodesiani, ma di cui oggi c’è il forte sospetto fosse farina del sacco di Mugabe. Anche Nkomo viene a sua volta rilasciato, e si rifugia nello Zambia. Nel 1976 i due movimenti si alleano nel Fronte patriottico, fondendo anche i loro eserciti nello Zimbabwe People’s Army (Zipa).

Nel 1978 l’usura militare e le pressioni di Stati Uniti e Regno Unito convincono Smith a un accordo di compromesso che porta a elezioni multirazziali, in cambio di una quota riservata ai bianchi di 10 seggi al Senato, 28 alla Camera e un quarto dei ministri. Sconfiggendo Sithole, vince le elezioni il vescovo metodista Abel Muzorewa, che diventa primo ministro e dà al Paese il nuovo nome di Zimbabwe Rhodesia: mettendo così assieme la denominazione nazionalista, da un antico sito archeologico, e quella europea, dal colonizzatore Cecil Rhodes.

Ma Zanu e Zapu continuano la lotta armata anche contro di lui, fino al nuovo accordo di pace di Lancaster House del 21 dicembre 1979, pure combinato da Washington e Londra, e di cui stavolta sono contraenti anche Mugabe e Nkomo, oltre a Muzorewa e Smith.

L’intesa prevede una riforma agraria per 60.000 ettari, l’abolizione dei seggi riservati ai bianchi e dell’incarico di primo ministro entro il 1987, e soprattutto un momentaneo ripristino del dominio coloniale britannico, con l’invio di un governatore incaricato di organizzare le elezioni del marzo 1980. In realtà il risultato ha connotati etnici marcati: tutti i 20 seggi dei bianchi vanno al Fronte rhodesiano di Smith; tutti i 27 seggi della regione ndebele del Matabeleland vanno allo Zapu; e lo Zanu fa man bassa di 53 sui 56 seggi restanti, lasciandone solo tre al partito di Muzorewa.

Il 18 aprile 1980 è proclamata ufficialmente la Repubblica dello Zimbabwe, sulle note di una canzone che Bob Marley ha composto per l’occasione. Nel 1982 anche la capitale Salisbury sarà ribattezzata Harare.

Divenuto premier, Robert Mugabe offre subito un posto di ministro a Ian Smith e la presidenza della Repubblica a Nkomo, ma entrambi rifiutano. Alla testa dello Stato va il pastore metodista Canaan Banana.

Il gioiello rovinato

«Hai tra le mani il gioiello dell’Africa» dicono a Mugabe nel giorno dell’insediamento i colleghi, il mozambicano Samora Machel e il tanzaniano Julius Nyerere. «Adesso, trattalo con cura…». È un Paese che ha le reti stradale e ferroviaria tra le migliori dell’Africa, e città tra le più pulite. Ha un’agricoltura diversificata che esporta sia frutta tropicale come ananas, mango e papaya, sia frutta di climi temperati tipo mele, pesche e prugne, oltre a ortaggi che riforniscono direttamente i mercati di Londra e ha inoltre uno dei più pregiati tabacchi del mondo. La sua produzione di mais sfama non solo la popolazione nazionale ma anche quella dei Paesi limitrofi. Nel sottosuolo abbondano oro, cromo, amianto, platino, carbone. E la diga sul fiume Zambesi rifornisce di elettricità mezza Africa australe.In questo momento Mugabe ha all’interno e in patria una popolarità altissima, anche tra i bianchi che hanno votato Ian Smith. Il suo carisma

è simile a quello che avrà Nelson Mandela dopo l’elezione alla presidenza del Sudafrica, e in effetti il Sudafrica dell’apartheid ha a sua volta fatto pressione sul governo rhodesiano assieme a inglesi e americani, per vedere se può funzionare una transizione che dia il potere alla maggioranza nera senza costringere i bianchi ad andarsene.

Purtroppo, sarà un Mandela che andrà «a male». Come riconosceranno in seguito molti analisti, è per colpa del modo in cui gestisce il «gioiello» capitatogli in mano se il razzismo in Sudafrica dura dieci anni di più, spaventando i bianchi e irrigidendoli nella difesa dell’apartheid. Fino al momento in cui con la caduta dell’Unione Sovietica il regime di Pretoria si arrischia a sperimentare una nuova transizione in Namibia, che stavolta andrà bene.

All’inizio Mugabe parte bene, con la creazione dal 1° gennaio 1981 di quel sistema sanitario e scolastico di base di cui la popolazione nera era stata priva, e anche con un piano di case popolari. L’esito positivo è che tuttora il livello di alfabetizzazione è dell’85 per cento. Ma il 17 febbraio 1982 Nkomo è improvvisamente cacciato dalla sua carica di ministro,  con l’accusa di preparare un colpo di Stato in combutta con la Cia e il Sudafrica. «Lo Zapu e il suo leader Joshua Nkomo sono come un cobra in una casa» dice Mugabe. «L’unico modo per trattare con loro in maniera efficace è quello di schiacciare loro la testa». La regione del Matabeleland prende le armi. Annunciando che il suo obiettivo è un partito unico in stile marxista, Mugabe invia nella regione la Quinta brigata: un’unità d’élite addestrata dai nordcoreani, che fa una pulizia etnica tale da lasciare sul campo 20.000 cadaveri. È l’operazione Gukurahundi, parola in shona per un tipo di pioggia che spazza via tutto…

Naturalmente, presi in mezzo nella faida tra shona e ndebele i bianchi iniziano ad andarsene. Entro il 1990 almeno i due terzi saranno partiti per il Sudafrica, gli Stati Uniti o il Regno Unito. E anche Nkomo scappa. Il 7 marzo 1983 passa la frontiera del Botswana travestito da donna,  per poi rifugiarsi a Londra dove dichiara: «Mai in vita mia mi sarei aspettato di dover scappare da un governo di neri».

In realtà poi i due non ci mettono troppo a tornare a intendersi. Dimenticando la strage, il 22 dicembre 1987 Nkomo firma con Mugabe un accordo con cui lo Zapu viene dissolto nello Zanu, ora ribattezzato Zanu-Pf (Fronte patriottico). E un’amnistia perdona sia gli ultimi 122 ribelli ndebele alla macchia, sia soprattutto le massicce violazioni dei diritti umani compiute dal regime. Molti ndebele danno a Nkomo del «venduto», ma il vecchio combattente è ormai stanco. Tornato in patria, si convertirà al cattolicesimo nel 1999, poco prima di morire per un cancro alla prostata.

Poiché nel 1987 finisce anche la quota di seggi riservata ai bianchi, Mugabe a questo punto potrebbe concludere l’operazione di costruzione di un regime monopartitico da tempo annunciata. In quell’anno assume infatti pure la carica di presidente, dopo l’abolizione del ruolo di primo ministro. Ma proprio in questo momento l’implosione del sistema sovietico avvia un’ondata mondiale di rivolte per ottenere il pluralismo che presto si estende all’Africa, dove un regime autoritario dopo l’altro è costretto all’apertura democratica. E chi non cede è spesso spazzato via, come accade appunto all’etiopico Menghistu.

Poiché la guerra civile ha anche ridotto l’economia a pezzi, il piano quinquennale del 1989-1994, pur usando ancora terminologie di sapore sovietico, si ispira invece alla nuova moda liberista, allentando il controllo dei prezzi in favore degli agricoltori bianchi. E dal 1994 inizia anche un piccolo boom. Ma nel 1996, cinque anni dopo la morte della moglie Sally, Mugabe decide di sposare Grace Marufu: una segretaria che ha quarant’anni meno di lui, che da tempo è la sua amante e che gli ha già dato due figli. In chiesa, e invitando 20.000 persone, con grande scandalo della popolazione. I 60.000 dipendenti pubblici, che da tempo chiedono aumenti di stipendio, entrano in un clamoroso sciopero, al termine del quale lui acconsente alle loro richieste, ma per togliere poi a Natale le tredicesime. È in questo momento che sale al calor bianco la tensione con Morgan Tsvangirai, il sindacalista che ha reso lo Zimbabwe Congress of Trade Unions indipendente dal partito Zanu. Per tre volte scherani del regime tentano di ucciderlo, la terza spingendolo giù da una finestra. È per recuperare popolarità che a questo punto Mugabe ha la sua trovata più devastante: chiamare i reduci della guerra di liberazione e i contadini senza terra a occupare le fattorie dei bianchi. È Chenjerai Hunzvi a guidare i raid dal 1997, anno della sua elezione alla presidenza della Zimbabwe Liberation War Veterans Association, al 2001, anno della morte non si sa se di malaria o di Aids: è un vecchio guerrigliero che per sé ha scelto il significativo nome di battaglia di Hitler, «Hitler» Hunzvi. È vero: nell’Ottocento quelle aziende erano state costruite espropriando senza troppi complimenti le terre degli indigeni. Ma ora sono alla base della prosperità del Paese, assicurando l’autosufficienza alimentare e anche un’offerta di lavoro che attira almeno 300.000 immigrati dai Paesi vicini. D’altra parte Mugabe è al governo ormai da 16 anni, e avrebbe potuto tranquillamente procedere a una riforma agraria rispettando lo Stato di diritto… Nel settembre del 1998 una conferenza internazionale di finanziatori rifiuta comunque di sostenere i suoi piani agrari. Lui per ripicca nell’aprile 2000 fa una riforma della Costituzione con cui «obbliga» il Regno Unito a compensare le «terre rubate agli africani durante il periodo coloniale». Ma invece di farsi distrarre, l’opposizione si raduna nel 1999 nel Movement for Democratic Change (Mdc) di Tsvangirai, in cui sindacalisti e reduci della rivolta ndebele stanno fianco a fianco con i resti del partito bianco di Ian Smith, con gli immigrati e con gli abitanti delle immense bidonville che si sono create attorno ad Harare. Alle elezioni del 2000 l’Mdc conquista a sorpresa 57 dei 120 seggi, e secondo tutti gli osservatori sarebbe stato in realtà il vincitore, senza i massicci brogli elettorali.

Sempre a colpi di brogli nel 2002 Mugabe riesce a farsi rieleggere presidente con soli 53.000 voti di scarto, anche se qualcuno sostiene che le manipolazioni sono state limitate al minimo per far sembrare la vittoria plausibile. Il Commonwealthsospende lo Zimbabwe dall’organizzazione. Fino al 2000 almeno undici milioni di ettari di terra coltivabile erano in mano a 4000 farmers bianchi. Oggi all’80 per cento sono stati ridistribuiti a 200.000 nuovi piccoli proprietari, ma il saldo occupazionale è negativo, a causa dei 300.000 operai agricoli che hanno perso il posto.

La ricchezza nazionale è poi scesa del 20 per cento, la produzione agricola del 26 per cento, l’inflazione va avanti a ritmi del 1600 per cento l’anno, il valore della valuta nazionale è precipitato del 96 per cento. Le entrate del turismo si sono ridotte dei quattro quinti, l’estrazione dell’oro della metà, il 70 per cento della popolazione è disoccupato, un altro 35 per cento ha l’Aids, di cui muoiono 3000 persone a settimana. Naturalmente c’è una carestia devastante, con tre milioni di persone che necessitano di aiuto alimentare permanente, ma con il governo che distribuisce l’aiuto internazionale solo a chi è fedele al potere. L’aspettativa di vita si è dunque ridotta a 30 anni, mezzo milione di persone è senza casa, e un milione è emigrato all’estero.

Tsvangirai è arrestato per ben tre volte: nel 2000, nel 2002 e nel 2003. E in un clima di brogli e intimidazioni massicce al voto del 2005 l’Mdc scende a 41 deputati. Ma mantiene tutta la sua forza nelle principali città. Specie nelle bidonville, là dove la macchina del potere di Mugabe non riesce ad arrivare. Dopo le elezioni il governo lancia allora l’operazione Murambatsvina: in shona, «spazzar via». Altrimenti definita «lo tsunami dello Zimbabwe», per la furia con cui le baracche delle stesse bidonville sono appunto spazzate via dalle periferie cittadine: un provvedimento ufficialmente motivato da ragioni di igiene e ordine pubblico, ma finalizzato in effetti a ributtare 2,4 milioni di persone nella campagna, da dove non potranno più votare tanto liberamente per l’Mdc.

Di qui la decisione di Tsvangirai di boicottare le successive elezioni e la scissione dal partito dell’ala partecipazionista di Arthur Mutambara. Tutti e due i leader, però, nel marzo 2007 tornano in piazza, dove vengono randellati e arrestati. Innocent Chagonda, l’avvocato di Tsvangirai, in tribunale dice di averlo visto da dieci metri di distanza con la testa bendata e la faccia gonfia, e che nei due giorni di custodia è svenuto almeno tre volte. Ma quando il segretario dell’Onu, Condoleezza Rice, e l’Unione europea chiedono la liberazione di Tsvangirai, i Paesi vicini insistono invece per la non interferenza. «I problemi dello Zimbabwe deve risolverli il popolo dello Zimbabwe» dice il ministero degli Esteri di

Pretoria.

Quanto all’Onu, l’11 maggio 2007 alla testa della Commissione sullo sviluppo sostenibile è eletto il signor Francis Nheme, ministro dell’Ambiente e del Turismo dello Zimbabwe. Puntuale, in capo a tre giorni il suo governo annunciato un tasso di inflazione del 2200 all’anno, record mondiale. A luglio il tasso arriva al 7638 per cento. E a inizio di ottobre i fornai avvertono che il pane sta per finire.

Tra gli estimatori di Mugabe c’è naturalmente il venezuelano Chávez, che nel 2005 approfitta del vertice Fao per abbracciarlo pubblicamente a Roma, dicendolo «demonizzato» a torto, e assicurando che il Venezuela sta facendo riforme «simili alle sue» per cambiare «le ingiuste strutture del colonialismo». C’è poi la Cina, che ha venduto a Mugabe jet e armi; vari analisti ritengono anzi che in realtà il Sudafrica difenda il governo dello Zimbabwe proprio per il timore di vederlo scivolare del tutto tra le braccia di Pechino. E c’è l’Iran, che ha accordato prestiti nel settore energetico. Non però la Libia, che tre anni fa ha annullato ogni accordo per il mancato rispetto delle concessioni nel settore minerario. Eppure, Mugabe non gode a livello internazionale dello stesso tipo di simpatie di altri personaggi come lo stesso Chávez o Castro, o anche Gheddafi. Probabilmente, presso quel tipo di opinione pubblica terzomondista che avrebbe potuto sostenerlo Mugabe si è dato una micidiale zappata sui piedi per colpa della sua forsennata omofobia. Definisce infatti i gay «peggio dei cani e dei porci»; accusa il governo inglese di avercela con lui perché «è in mano ai gay»; e una volta è stato fisicamente aggredito a Londra da un leader della lobby omosessuale britannica, per protesta contro la dura legislazione che nel 1995 ha dichiarato l’omosessualità un reato. Lo stesso ex presidente Banana, poi morto di cancro nel 2003, fu condannato nel 2000 per omosessualità a dieci anni di lavori forzati, di cui nove condonati a patto di sottomettersi a un trattamento psichiatrico. Forse è soprattutto per questa omofobia che lo scorso luglio l’Università di Edimburgo gli ha tolta una laurea honoris causae altri due atenei Usa hanno minacciato di fare lo stesso. La punizione peggiore che potrebbero dargli.