Roberto Corsi, l’intellettuale senza padroni

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Roberto Corsi, l’intellettuale senza padroni

25 Novembre 2007

A Roberto Corsi debbo gratitudine. Sono stato eletto Senatore della Toscana quasi due anni fa. E la mia conoscenza della regione, lo confesso senza remore, era allora limitata. Si fermava all’interno delle mura di Lucca: città tra le più belle del mondo che avevo frequentato con assiduità perché collaboratore del Presidente del Senato Marcello Pera e perché vi avevo fondato l’IMT, una Scuola d’eccellenza il cui avvio ha rappresentato uno degli impegni più ardui ed entusiasmanti della mia esistenza, al quale ha poi fatto seguito una delle delusioni più cocenti.

Lucca, però, non è la Toscana. Quanto meno, non lo è tutta. Per questo, al fine di comprendere lo spirito così peculiare di questa regione, è necessario spingersi fuori da quelle mura così protettive, all’interno delle quali, inevitabilmente, si condensano e si amplificano sia le virtù che i difetti. A tal fine, la conoscenza di Roberto Corsi – della sua persona ancor più che dei suoi scritti – mi è stata preziosa. Roberto, infatti, della toscanità esprime con immediata naturalezza la schiettezza, l’arguzia, l’irriverenza e, quel che è davvero particolare, assieme a tutto ciò una bontà non convenzionale. Lo fa con stile. Uno stile letterario, innanzi tutto, che sa mettere a frutto un’autentica passione per la politica nella quale si coniuga assieme la profonda comprensione delle sue dinamiche con la leggerezza (sarei quasi portato a dire – e in senso affatto dispregiativo -, con la superficialità) di cui è portatrice sana la saggezza popolare, che egli ritrova in motti, proverbi, citazioni tratte da canzonette. E poi uno stile umano, di vera apertura nei confronti del prossimo del quale prova sempre a cogliere l’essenza attraverso un rapporto ravvicinato, ricercato con un sorriso buono e sarcastico sulle labbra, autentico “lasciapassare” per la conquista di un rapporto autentico.

Tutto questo fa degli articoli di Roberto Corsi un prodotto originale; a volte persino sorprendente. A Roberto, infatti, è sufficiente un riferimento fulminante per aprire, nell’analisi di una notizia magari banale, uno squarcio che rimanda a questioni fondamentali dell’esistenza umana. E, anche per questo, la sua critica di un fatto o di un comportamento assai raramente si dissocia dal tentativo di penetrare l’animo dei protagonisti al fine di metterne a nudo, con indulgenza ma senza compiacenza, un tratto nobile, una peculiarità o, assai più spesso, una debolezza.

A Roberto il gioco riesce quasi sempre. Anche perché – lo si apprende approfondendone la conoscenza – egli sa cos’è la vita. Ne ha conosciuto la durezza, anche se questa ai suoi occhi non è mai riuscita ad offuscarne la bellezza. Per questo, vi aderisce con una lievità mai rassegnata. E qui, io credo, si trova il segreto dei suoi libri che egli – come dice nell’introduzione di quest’ultimo volume – ha ora il sospetto siano divenuti troppo frequenti: ben tre in tre anni.

Ma una scansione così ravvicinata, in realtà, ha una ragione che forse neppure Roberto Corsi vuole confessare a se stesso. In realtà, molti degli articoli, degli elzeviri, delle interviste che ha raccolto in volume avrebbero dovuto trovare spazio sulle pagine di un quotidiano. Roberto possiede la penna e i ritmi del cronista politico e, personalmente, ne consiglierei l’assunzione a ogni direttore alla ricerca di una rubrica in grado di penetrare la politica con occhi non consueti e formule non scontate. Per svolgere bene questo mestiere, però, è necessario arrendersi alla priorità dei fatti esterni dei quali, oltre che interprete, si diventa anche un po’schiavi. Ed è il prezzo che Roberto Corsi non ha inteso pagare. Non per malinteso senso di superiorità ma, più semplicemente, per necessità e per scelta. Egli ha preferito confermare le priorità della sua esistenza, fatta di piccole incombenze, di cure familiari e persino, a quanto afferma nella prefazione, di panni da stirare. Roberto Corsi scrive quando vuole e quando può. Per questo, si è inventato un direttore immaginario al quale, a seconda dei casi, ha dato nome “cestino” o “bottiglia”. Non è stata una scelta d’isolamento: tutt’altro. Lo si comprende considerando le interviste che propone nei suoi libri, veri esperimenti scientifici di un ricercatore d’umanità che, al di là di ruoli e maschere, sa rintracciare le donne e gli uomini in carne d’ossa comunicando al lettore, con altrettanta efficacia, lo stupore di un incontro e la lenta sedimentazione di una consuetudine.

Questi suoi volumi usciti in serie debbono considerarsi, dunque, il surrogato di un’attività quotidiana che non appassisce: una raccolta di straordinaria freschezza giornalistica e umana. Di fronte a tale affermazione Roberto, ne sono certo, si schernirebbe. Per poi dirmi che in tutto ciò – per quel poco di vero che forse vi è -, non è certamente esente il contributo della sua fede e l’aiuto di quel Dio al quale crede con sincera schiettezza. Io penso di aver imparato a comprenderlo, pur continuando a ritenere questi suoi libri, innanzi tutto, un piccolo miracolo della laica religione del fare.