Robin Hood è un kolossal postmoderno spettacolare e sottilmente anti cristiano
16 Maggio 2010
Un altro kolossal storico fabbricato ad Hollywood arriva a valanga ovunque. Anzi, sfruttando la passerella del Festival di Cannes, ultima spiaggia (di lusso) della lotta (immaginaria) al nemico americano in nome del cinema d’autore, gli europei hanno potuto vedere il film addirittura con un giorno di anticipo rispetto agli spettatori americani. Il film è “Robin Hood”, ennesima rivisitazione sul grande schermo delle gesta del “principe dei poveri”. A fabbricarlo è stata una coppia di garanzia: dietro la macchina da presa il regista inglese Ridley Scott, davanti il divo neozelandese Russell Crowe. Insieme nel 2000 avevano costruito uno dei film più fortunati del nuovo millennio: “Il gladiatore”. Adesso ci riprovano con l’arciere vestito di verde, signore incontrastato della foresta di Sherwood. Una variante medievale di Tarzan impegnato a combattere il male e la rapacità incarnata dal volto tetro dello Sceriffo di Nottingham, al servizio di un re d’Inghilterra inetto e usurpatore, Giovanni Senza Terra, antitesi del vero sovrano giusto, leale e coraggioso, Riccardo Cuor di Leone, allontanatosi dalla patria per partecipare alle crociate. A completare l’opera (e la leggenda) la bella Marianna, amata da Robin Hood.
Sin dall’epoca del muto i più grandi attori si sono misurati con il personaggio di Robin Hood: Douglas Fairbanks (1922), Errol Flynn (1938), Sean Connery (1976), Kevin Costner (1991). Anche Walt Disney nello splendido e sempreverde “Robin Hood” in cartoni animati (1973), ha contribuito non poco a solidificarne il mito, assegnandogli giustamente i tratti volpini. L’immagine di Robin Hood, come quella di Babbo Natale o Topolino, nel corso del tempo ha funzionato poiché lo stereotipo, fisico e valoriale, è stato ciclicamente ripetuto: restituire ai poveri un po’ di denaro prelevato ai ricchi e ai malvagi; abbigliamento ricco di cuoio e tinte verdi, per mimetizzarsi nella foresta. Bene, in “Robin Hood made Ridley Scott & Russell Crowe” di tutto ciò non v’è minima traccia.
La partenza del film si riallaccia ad una precedente opera di Ridley Scott: “Le crociate” (2005). Robin Longstride (la leggenda lo trasformerà in Robin Hood) è accanto a Riccardo Cuor di Leone in Terra Santa. Il sovrano gli chiede cosa ne pensa della guerra. Da inglese onesto gli fornisce questa risposta: uno schifo. Massacrare 2.500 musulmani inermi e sconfitti, li ha trasformati in uomini “senza Dio”. Parole così genuine meriterebbero ben altro della gogna. Ma Riccardo d’Inghilterra non le apprezza proprio. Nel corso della battaglia una freccia trafigge il re al collo.
È morto il re, evviva il re, lunga vita al re. C’è però bisogno di un nuovo sovrano, e la corona di Riccardo va riportata in Inghilterra. Partono così due ore abbondanti di scontri, battaglie, assedi, incendi, uccisioni, imboscate e, naturalmente, amori. La passione sboccia tra il massiccio Robin e la bella Marianna. Ma anche qui il tocco è sorprendente: l’attrice australiana Cate Blanchett sullo schermo è stata Elisabetta d’Inghilterra, e non ha i turbamenti, la leggerezza, i rossori, le paure assegnategli dalla tradizione. Quando aiuta Robin a togliersi la pesante armatura di ferro per fare il bagno, e vede il possente torso nudo, lo sguardo è già un programma. E poi adopera la spada in battaglia come Giovanna d’Arco. Insomma, tranne lievi appannamenti, “Robin Hood made Ridley Scott & Russell Crowe” è un film furbo quanto gradevole. Non s’era mai visto uno sbarco medioevale girato come l’apertura sulle spiagge della Normandia di “Salvate il soldato Ryan” (1998) di Steven Spielberg: archi e frecce al posto di pallottole e mitragliatrici, che colpiscono egualmente gli assalitori sin dentro l’acqua, presto arrossatasi dal sangue dei caduti. Il discorso si potrebbe chiudere qui. Invece c’è un punto da sottolineare, e di non secondaria importanza.
La pellicola diretta da Ridley Scott si riallaccia ad un filone del recente cinema americano. Trattasi di una sorta di aggiornamento, facendo spesso ricorso all’aiuto degli effetti speciali, dell’ultimo genere del classicismo hollywoodiano, il kolossal biblico, greco-romano, vichingo e medievale, affermatosi nel corso degli anni cinquanta-sessanta del Novecento. Le pellicole in questione sono: “King Arthur” (2004) di Antoine Fuqua, “Troy” (2004) di Wolfgang Petersen, “Alexander” (2004) di Oliver Stone, “300” (2006) di Zack Snyder, “Elizabeth” (1998) e “Elizabeth – The Golden Age” (2007) di Shekhar Kapur, “Beowulf” (2007) di Robert Zemeckis. Cosa accomuna questi film, oltre al medesimo genere, luogo e modo di produzione? Una palpabile retorica anti-cristiana. Alcuni film, non a torto, sono stati classificati come chiaro esempio del cinema americano della cosiddetta «sicurezza nazionale». Ma è solo un aspetto, e neppure il più significativo. Tutti i film citati sono costosissime operazioni finanziarie.
Il cinema americano ha mescolato sin dalla fondazione la forza trainante della produzione agli aspetti ideologici. Può piacere o meno, ma il genere kolossal-postmoderno è la cartina di tornasole dello «scontro di civiltà», con la rappresentazione di una civilizzazione superiore (nella quale si riflette la civiltà americana) in lotta contro un mondo impegnato a combatterla e, se possibile, a trascinarla nelle tenebre. Ovviamente questa tesi c’è anche chi la rovescia: in realtà verrebbe messa in scena la presa di coscienza dell’attuale «crisi di civiltà» che sta vivendo la società americana, o della presa di coscienza della conclusione imperiale dell’America, affermatasi a livello planetario nel XX secolo (il «secolo americano») e destinata a crollare nel XXI secolo.
Non avendo una storia lunga e variegata alla quale attingere, le produzioni hollywoodiane da sempre hanno cercato nel passato europeo soggetti ed idee. Se il cinema classico finiva per inquadrare le sue storie nell’orizzonte valoriale cristiano, il cinema postmoderno contemporaneo le inquadra in un orizzonte pagano e in aperta contestazione alla cultura cristiana. In tutti i film ricordati ci vengono mostrati popoli guerrieri ma felici, appagati in ogni loro soddisfazione carnale, e soprattutto liberi. Con il divino hanno un rapporto prettamente pagano.
Popoli, e soprattutto eroi, protagonisti di storie antiche, il cui significato etico si trasfigura nell’universo moderno. In altre parole la società è distante dalla nostra nell’ambientazione, ma non lo è certo nel significato comportamentale. Il paradigma anti-cristiano presente nel kolossal-postmoderno si delinea piuttosto nitidamente. I modelli di società che fanno da corollario alle varie storie raccontate, spazianti dalla Sparta di Re Leonida al medioevo nord-europeo, dalla Roma imperiale alle Crociate, dai racconti della guerra di Troia a quelli di Re Artù, dalla mitologia norrena alla battaglia tra regnanti spagnoli cattolici e sovrani d’Inghilterra riformati, da Mago Merlino a Robin Hood, sono figurazioni orientate al depotenziamento del cristianesimo. Persino nei vari episodi per il cinema delle serie estremamente commerciali “Le cronache di Narnia” e “Il Signore degli Anelli”, tratte dai racconti di Lewis e Tolkien, si assiste ad un palpabile indebolimento della visione cristiana, rispetto alla cultura impressa all’opera narrativa dai loro rispettivi autori.
Hollywood ha sempre interpretato la storia (della propria nazione come dell’Occidente) piegandola alle esigenze del momento. Storicamente ben sappiamo che il fondamento dell’Occidente sta nel cristianesimo, e la libertà, come la democrazia e il capitalismo, sono intimamente connessi al pensiero cristiano. Il cinema non anticipa mai i flussi sociali. Può farlo, ma nelle nicchie, come accade all’avanguardia; non ci riesce nei prodotti di largo consumo. Opere cinematografiche esemplari visualizzano e conferiscono ordine logico a modelli comportamentali già largamente diffusi nella società. Il vero spartiacque rappresentato dalla «rivoluzione culturale», verificatosi nella società americana nei due decenni conclusivi del XX secolo, ha condotto al trionfo del postmodernismo relativista e all’affermazione di un paradigma culturale definitivo «terapeutico», del «risentimento» o del «piagnisteo». Nel decennio dominato dal carisma conservatore di Ronald Reagan si verificò la frantumazione dell’ordine borghese e la vittoria della cultura radicale, causa dell’avviamento del processo di «desocializzazione», di cui l’opposizione al cristianesimo (non solo dunque al cattolicesimo) è l’asse centrale. La neo-conservatrice Gertrude Himmelfarb nel saggio “One Nation, Two Cultures” (1999) inquadrò, ancora negli entusiasmi per il reaganismo, questa evidente rottura. Una nazione e due culture. La prima borghese, ormai minoritaria; l’altra radicale, sempre più forte e anti-cristiana.
Questa cultura radicale, essendo diventata di massa, ha bisogno di nutrimento cinematografico. Ridley Scott ha saputo fornirle prodotti adeguati. Con “Il gladiatore” ha insistito sul paganesimo neo-spiritualista; con “Le crociate” ha indirizzato la macchina da presa su un cavallo di battaglia della retorica anti-cristiana; e con “Robin Hood” prosegue nel descrivere l’inutilità e la crudeltà di una guerra di religione insensata, voluta dal papato di Roma. In attesa della prossima puntata. Magari con il racconto della leggenda di Robin Hood.