Romano Prodi, Bankitalia e l’oro che non c’è
08 Agosto 2007
Le
nostre nonne e bisnonne ricordano “L’oro alla Patria” – cerimonie di grande
emozione in cui cedevano allo Stato (con la S maiuscola) anche le fedi nuziali per
contribuire allo sforzo bellico della prima e della seconda guerra mondiale.
Senza molto pathos, la sinistra reazionaria è riuscita, nelle ultime ore di
operatività del Parlamento, a fare inserire nella risoluzione di maggioranza di
approvazione del Dpef una clausola che potrebbe chiamasi “Oro alla Triplice”. In
sostanza, si proponeva non di cedere oro per rimpinguare le casse della
triplice sindacale (una recente inchiesta del settimanale “Panorama” afferma
che il loro stato patrimoniale è molto florido ed il loro flusso di cassa
presenta un lauto margine operative loro) ma di utilizzare il “sovrappiù”
dell’oro custodito tra le riserve della Banca d’Italia (un nuovo “tesoretto”) allo
scopo di finanziare il Protocollo sul Welfare del 23 luglio (e semmai anche
qualcosa di più tra le tante richieste della Triplice, vero azionista di
riferimento dell’Esecutivo).
La
notizia del giorno, che sorprende di più, è che dai luoghi di villeggiatura
toscani il presidente del Consiglio abbia fatto propria la proposta, pur se in
una versione riveduta e corretta. Il premier non nega la validità della
proposta di utilizzare le riserve auree della Banca d’Italia per ridurre,
almeno in parte, il pesante fardello del debito pubblico italiano. Una
iniziativa di questo genere deve essere esaminata sotto il profilo sia tecnico
sia politico. La proposta originaria – è importante notarlo – emanava dallo
schieramento parlamentare di centro-sinistra non dal Governo: tanto che alcuni
esponenti (come Laberto Dini) si sono apertamente dissociati tramite il
quotidiano prodiano “La
Repubblica”. L’Ue ed il Fondo monetario e la stessa
Bankitalia hanno utilizzato termini eleganti per dare all’idea, in sostanza,
del cervellotico. La proposta è, al tempo stesso, dannosa e rivelatrice.
Dal
punto di vista tecnico, un accordo internazionale limita a 500 tonnellate annue
per cinque anni (sino a settembre 2009) la quantità di oro vendibile tra le 15
banche europee che lo hanno sottoscritto. Già 345 dei lingotti di Bankitalia
sono prenotati da altri istituti; ne restano 155, meno di 2,5 miliardi l’anno
in valore – per avere un raffronto meno del costo del contratto con gli
statali. Quindi, una goccia nel mare di richieste (25 miliardi di spese
aggiuntive) che al 31 luglio, dicasteri grandi e piccoli avevano inoltrato a
Palazzo Chigi per la prossima finanziaria (e che comporterebbero una manovra di
pari dimensioni senza incidere sulla crescita).
Più
interessante, ma di cui il Governo potrebbe soltanto farsi promotore, una
proposta eterodossa, redatta dal più ortodosso dei pensatoi: l’Istituto Affari
Internazionali (Iai), fondato dal federalista Altiero Spinelli, il cui Presidente
onorario è Carlo Azeglio Ciampi e nei cui organi di governo siede il ministro
dell’Economia e delle Finanze, Tomaso Padoa-Schioppa. Argomentata in un
centinaio di paginette dense di considerazioni economiche e giuridiche (corredate
dai dati quantitativi essenziali), la proposta consiste nel permettere all’Ue
in quanto tale (il cui bilancio è pari solo all’1,048% del pil comunitario) di
indebitarsi (emettendo titoli sul mercato dei capitali internazionali) al fine
di lanciare un piano di spesa addizionale per lo sviluppo (reti transeuropee,
energia, ricerca) che nei prossimi cinque o sei anni permetta di spendere tra i
500 ed i 700 miliardi di euro ad integrazione delle risorse nazionali, pubbliche
e private.
La
proposta ha precedenti storici ed è stata attuata con successo dalla Ceca (la Comunità Europea
del Carbone e dell’Acciaio). Non sarebbe inflazionistica in quanto l’Europa
soffre di capacità di produzione non utilizzata (come dimostrato dai tassi di
disoccupazione). Non spiazza titoli pubblici o di imprese. Ha soprattutto il
vantaggio della semplicità: non richiede complicate strutture organizzative e
decine di indicatori, come contemplato nella “strategia di Lisbona”. Ha, però,
un serio ostacolo giuridico: il vincolo del pareggio annuale del bilancio
comunitario, inserito nel Trattato di Roma quando si pensava che tale bilancio
servisse esclusivamente o quasi a finanziare spese di parte corrente (come
stipendi e altri oneri di funzionamento delle istituzioni). Lo si può
correggere nel nuovo, e semplificato, Trattato Costituzionale, facendo contenti
tutti (da Sarkozy alla Merkel passando per Trichet e Barroso). Gli Euro-bonds
(chiamamoli così) sarebbero più efficienti e più efficaci dell’oro di Roma (che
non c’è). Ma non sarebbero in alcun modo disponibili per la prossima
finanziaria.
Il
fatto stesso che parte della maggioranza parlamentare su cui si regge,
barcollando, il Governo abbia pensato di vendere ciò di cui Bankitalia non
dispone – un po’ come in “Totò cerca casa”- dimostra come la politica
economica, non solo sia “pasticciona” (per riallacciarsi all’analisi fatta da
Giuliano Amato in un libro di 30 anni fa) ma ormai arrivata al capolinea. Autorevoli
componenti della maggioranza affermano, in privato, che è meglio non parlare
più della risoluzione sul Dpef e della proposta relativa all’oro di Palazzo
Koch. Invece, è bene che se ne parli nelle spiagge ai monti per dare contezza
che al capolinea della politica economica devono scendere tutti, in primo luogo
il conducente.