Rumsfeld: “Gli storici apprezzeranno Bush”
12 Settembre 2007
Donald Rumsfeld, una delle figure più discusse dell’amministrazione Bush, al quale sono state attribuite molte decisioni legate alla guerra al terrorismo, ha rilasciato alla rivista GQ la sua prima intervista da quando non è più al Pentagono. Nel suo ranch di Taos in Texas, dove si trovava in villeggiatura con la moglie, l’ex segretario alla Difesa ha dichiarato che considera l’Afghanistan “un grande successo”, dove “ventotto milioni di persone sono libere” e dove “hanno il loro presidente, il loro parlamento, condizioni migliori nelle strade”. E’ un’altra storia quando si parla dell’Iraq. Il nuovo governo di Baghdad “non è stato capace di creare un ambiente ospitale per quello che si può chiamare un modo di vita che evolve, una democrazia…”. Difende i militari che “non devono perdere in battaglia, non devono perdere la guerra”, ma che non possono fare tutto da soli. “Ci vuole diplomazia, assistenza economica, una serie di cose che vanno oltre il dipartimento della Difesa”.
Rumsfeld ha dato le dimissioni dopo le elezioni dello scorso novembre con le quali i repubblicani hanno perso il controllo del Congresso. E’ stato sia il più giovane che il più vecchio segretario alla Difesa, consigliere di Ford e Nixon (che un giorno lo chiamo “il piccolo bastardo senza pietà”), congressman per quattro legislature, ambasciatore alla Nato, inviato diplomatico in Medio Oriente. Quando gli viene chiesto se ha rimorsi per la guerra in Iraq, ammette “certo, voglio dire si vorrebbe sempre che tutto fosse perfetto ma non lo è mai”. Tra le cose andate storte che hanno contributo a creare la situazione attuale, Rumsfeld menziona, per esempio, il rifiuto della Turchia, paese membro della Nato, di concedere alle truppe americane, all’inizio della guerra, la possibilità di varcare il confine con l’Iraq dal proprio territorio, con il risultato di aver lasciato ai seguaci di Saddam Hussein, poi insorti, grande libertà di movimento per un lungo periodo di tempo.
Ma in merito alla responsabilità, spesso attribuitagli, della decisione di invadere l’Iraq, risponde fermamente di no. Esisterebbe anche la prova messa a verbale di una dichiarazione di Bush in cui il presidente ammette di non aver mai rimesso a Rumsfeld una tale decisione. La scelta di procedere all’intervento è stata presa in seguito ai grandi sforzi compiuti da tutta l’amministrazione per convincere Saddam Hussein ad aderire alle risoluzioni delle Nazioni Unite e spingere gli altri paesi a far pressione sul rais affinché lasciasse il paese per recarsi in esilio. Rumsfeld, poi, ricorda il documento presentato al presidente e al Consiglio di Sicurezza Nazionale contenente un elenco delle complicazioni che sarebbero potute sorgere nel conflitto, alcune delle quali si sono effettivamente verificate.
Dalle sue parole traspare comunque la stima nei confronti di Bush. E’ convinto che nel tempo verrà apprezzato, come è successo ad altri presidente americani che non erano considerati particolarmente brillanti come Eisenhower, Ford e Reagan. “E’ molto più intelligente e curioso di quello che la gente pensa”. E per “gente” intende soprattutto la stampa, da sempre impietosa con Bush. Ciononostante, non è rimasto in stretto contatto con il presidente, e quando gli viene chiesto se ne sente la mancanza risponde con “Umh, no”, e ammette di non avere avuto mai feeling con Colin Powell. Frequenta più Dick Cheney con il quale ha guardato le ultime due elezioni.
Il servizio di GQ, che rimane un giornale generalmente più interessato allo stile e alla moda che alla politica, ritrae Rumsfeld, soprannominato bonariamente Rummy, come un uomo arrogante ma con charme e una sottile ironia, innamorato da sessant’anni della stessa donna (cui ha ordinato un asinello via internet come regalo), con una casa grande abbastanza per ospitare i nipotini e l’intenzione di dedicare i suoi prossimi anni a progetti di beneficenza nei paesi in via di sviluppo.