Saggio storico sulla Rivoluzione Napoletana del 1799: capitoli 12 e 13
08 Maggio 2020
Capitolo 12
La guerra fu risoluta. Si pubblica un proclama, col quale il re di Napoli, con equivoche parole, dichiara che egli voleva conservar l’amicizia che aveva colla repubblica francese, ma che si credeva oltraggiato per l’occupazione di Malta, isola che apparteneva al regno di Sicilia, e non poteva soffrire che fossero invase le terre del papa, che amava come suo antico alleato e rispettava come capo della Chiesa; che avrebbe fatto marciare il suo esercito per restituire il territorio romano al legittimo sovrano (si lascia in dubbio se questo sovrano fosse o no il papa); ed invita qualunque forza armata a ritirarsi dal territorio romano, perché, in altro caso, se le sarebbe dichiarata la guerra. Simile proclama non si era veduto in nessun secolo della diplomazia, a meno che i romani non ne avessero formato uno, allorché ordinarono agli altri greci di non molestar gli acarnanii, perché tra i popoli della Grecia erano stati i soli che non avevano inviate truppe all’assedio di Troia.
Questo proclama fu pubblicato a’ 21 novembre. A’ 22 tutto l’esercito partí e, diviso in sette colonne, per sette punti diversi entrò nel territorio romano. Le colonne che mossero da San Germano e da Gaeta si avanzarono rapidissimamente. Né la stagione dirottamente piovosa, né i fiumi che s’incontrarono pel cammino, né la difficoltá de’ trasporti di artiglieria e viveri in cammini impraticabili per profondissimo fango, fecero arrestar gli ordini di Mack. Egli non faceva che correre: si lasciava indietro l’artiglieria, cominciavano a mancare i viveri, il soldato era privo di tutto, avea bisogno di riposo; e Mack correva. Le colonne di Micheroux e di Sanfilippo erano state giá battute negli Apruzzi. La voce pubblica di questo rovescio incolpò i generali; ma è certo che posteriormente la condotta di Micheroux è stata esaminata da un Consiglio di guerra ed è stata trovata irreprensibile. Di Sanfilippo non sappiamo nulla. Ma la voce pubblica in questi casi non merita mai intera fede perché il popolo giudica per l’ordinario dall’esito e spesso dá piú lode e piú biasimo di quello che taluno merita. Mack, il quale non avea pensato mai a stabilire una ferma comunicazione tra i diversi corpi del suo esercito ed un concerto tra le varie loro operazioni, non seppe se non tardi un avvenimento il quale dovea cangiar tutto il suo piano, ed intanto continuava a correre. Giunse a’ 27 di novembre in Roma. S’impiegarono cinque giorni in un cammino che ne avrebbe richiesto quindici. Non si concessero che cinque ore di riposo sotto le armi alla truppa, e fu costretta di nuovo a correre a Civita Castellana. Per la strada i viveri mancarono del tutto: i provvisionieri dell’esercito chiedevano invano a Mack ove dovessero inviarli; gli ordini del generale erano tanto rapidi, che, mentre si eseguiva il primo, si era giá dato il secondo, il terzo, il quarto, il quinto; i viveri si perdevano inutili per le strade, ed i soldati e i cavalli intanto morivan di fame. Quando giunsero a Civita Castellana, i nostri da tre giorni non avean veduto pane. Essi erano nell’assoluta impossibilitá di poter reggere a fronte di un nemico fresco, che conosceva il luogo e che distrusse il nostro esercito, raggirandolo qua e lá per siti ove il maggior numero era inutile. Mack non seppe ispirar coraggio ad una truppa nuova, esercitandola con piccole scaramucce contro i piccoli corpi nemici che incontrò da Terracina a Roma e che, messi per insensato consiglio in libertá, produssero due mali gravissimi: il primo de’ quali fu quello di non avvezzare le truppe sue alla vittoria, quando questa era facile e sicura; il secondo, di accrescer il numero de’ nemici nel momento delle grandi e pericolose azioni. Non seppe Mack far battere due colonne nello stesso tempo: furon tutte disfatte in dettaglio. Mack ignorava i luoghi dove si trovava e, sull’orlo del precipizio, credeva e faceva credere al re che le cose andavano prospere. Per la resistenza che i francesi avean fatta all’esercito del re delle Due Sicilie, costui dichiarò loro la guerra a’ 7 dicembre, cioè quando la guerra per le disfatte ricevute era giá terminata, e dovea pensarsi alla pace. Dopo due altri giorni, tutto l’esercito fu in rotta, e Mack non trovò altra risorsa che correre indietro, come prima avea corso in avanti. In meno di un mese, Ferdinando partí, corse, arrivò, conquistò il regno altrui, perdette uno de’ suoi e, poco sicuro dell’altro, fu quasi sul punto di fuggire fino al terzo suo regno di Gerusalemme per ritrovare un asilo.
Io non sono un uomo di guerra: gli altri leggeranno la storia di tali avvenimenti nelle Memorie di Bonamy ed in quelle del nostro Pignatelli, che vide i fatti e che era capace di giudicarne. Mack ha pubblicato anch’egli la sua Memoria. Egli calunnia la nazione e l’esercito. Ma l’esercito, alla testa del quale fu battuto, non era quello stesso esercito col quale, mentre taluno lo consigliava a procedere piú adagio, egli avea detto di voler conquistare l’Italia in quindici giorni?1.
Quest’uomo, che un momento prima sfidava tutte le potenze della terra, al primo rovescio perdette tutto il suo genio. Sebbene battuto, pure conservava tuttavia forze infinitamente superiori; e, se non poteva vincere, poteva almeno resistere: cogli avanzi del suo esercito poteva fermarsi a Velletri oppure al Garigliano, ove potea per lungo tempo contendere il passo: potea salvar Gaeta e salvare il Regno. Ma egli, che nella sua fortuna non avea fatto altro che correre, nella disgrazia non seppe far altro che fuggire; né si fermò se non giunse a Capua, dove pensava difendersi e dove non si trattenne che un momento.
Capua si poteva facilmente difendere e di lá forse si potea con migliori auspici ritentar di nuovo la sorte delle armi. Ad un proclama che si pubblicò per la leva in massa, tutto il Regno fu sulle armi. Gli apruzzesi si opposero alla divisione di Rusca e, se non riuscirono ad impedirgli il passo, fecero però sí che gli costasse molto caro. Tra le montagne impraticabili della provincia dell’Aquila non si pervenne mai ad estinguere l’insorgenza, e la stessa capitale della provincia non fu che per pochi giorni in poter de’ francesi, ridotti a doversi difendere entro il castello. L’altra divisione, che venne per Terracina e Gaeta, si avanzò fino a Capua, ma non potette impedire l’insorgenza, che era scoppiata ad Itri e Castelforte; e gl’insorgenti, che cedettero per poco le pianure, si rifuggirono nelle loro montagne, donde tornarono poco dopo ad infestare la coda dell’esercito francese, che vide rotta ogni comunicazione coli ’alta Italia. Un corpo di truppe difendeva con valore e con felice successo il passo di Caiazzo. Capua avea quasi dodicimila uomini di guarnigione.
Tutti gli abitanti delle contrade di Nola e di Caserta eransi levati in massa, ed eravi ancora un corpo di truppe intatto comandato da Gams.
Io dirò cosa che ai posteri sembrerá inverosimile, ma che intanto mi è stata giurata da quasi tutt’i capuani. Se Capua non fu presa per sorpresa non fu merito di Mack, ma di un semplice tamburo o cannoniere che fosse stato, il quale di proprio movimento die’ fuoco ad un cannone de’ posti avanzati verso San Giuseppe e fece sí che i francesi si arrestassero. Mack certamente non avea data alcuna disposizione di difesa.
Io lo ripeto: non sono uomo di guerra, né imprendo ad esaminar ad una ad una le operazioni e gli accidenti della campagna. Ma io credo che gli accidenti debbano mettersi a calcolo e che la somma finale dell’esito dipenda meno dagli accidenti che dal piano generale. Mack peccò naturalmente nell’estender troppo la linea delle sue operazioni, talché il minimo urto dell’inimico gliela ruppe. Ebbe piú cura dell’inimico che gli stava a fronte che di quello che gli stava sui fianchi, mentre forse questo era sempre piú terribile di quello; quindi è che egli si avanzò sempre rapidissimamente, e questa stessa rapiditá, che alcuni chiaman vittoria, fu la cagione principale delle sue inopinate irreparabili disfatte. Battuto in un punto, Mack fu battuto in tutta la linea, perché tutta la linea gli fu rotta. Quando Mack preparava un piano tanto vasto per combattere un inimico debolissimo, molti dissero che Mack era un gran generale, perché molti sono quelli che misurano la grandezza di una mente dalla grandezza delle forze che move: io dissi che era poco savio, perché la saviezza consiste nel produrre il massimo effetto col minimo delle forze. Mack è un generale da brillare in un gabinetto, perché in un gabinetto appunto, e prima dell’azione, predomina nelle menti del maggior numero l’errore di confonder la grandezza della macchina colla grandezza dell’artefice. Non manca Mack di quelle cognizioni teoretiche della scienza militare che impongono tanto facilmente al maggior numero. È sicuro di ottenere in suo favore la pluralitá de’ voti un generale il quale vi parli sempre di matematica, geografia, storia, che vi rammenta i nomi antichi di tutt’i sciti, vi enumera tutte le grandi battaglie che gli hanno illustrati ed, a confermar ogni evoluzione che gli vien fatta d’immaginare, vi adduce l’esempio di Eugenio, di Montecuccoli, di Cesare, di Annibale e di Scipione. Il buon senso per altro pare che ci dovrebbe indurre a diffidare dei piani di campagna troppa eruditi: essi per necessitá son troppo noti anche all’inimico, ed in conseguenza inutili. Tutto il vero segreto della guerra, dice Machiavellii, consiste in due cose: fare tutto ciò che l’inimico non può sospettar che tu faccia, lasciargli fare tutto ciò che tu hai previsto che egli voglia fare: col primo precetto renderai inutile ogni sua difesa, col secondo ogni offesa. Questi capitani soverchiamente sistematici hanno anche un altro difetto, ed è quello di dar un nesso, una concatenazione troppo stretta alle loro idee: si mandano il loro piano a memoria e, se avviene che una volta la fortuna della guerra lo tocchi, rassomigliano i fanciulli che han perduto il filo della loro lezione e son costretti ad arrestarsi. Vuoi conoscere a segni infallibili uno di questi capitani? Soffre pochissimo la contradizione ed i consigli altrui: il criterio della veritá è per lui, non giá la concordanza tra le sue idee e le cose, ma bensí tra le sue idee medesime. Prima dell’azione sono audacissimi, timidissimi dopo l’azione: audacissimi, perché non pensano che le cose possan esser diverse dalle idee loro; timidissimi, perché, non avendo prevista questa diversitá, non vi si trovan preparati. Affettano ne’ loro discorsi estrema esattezza; ma questa è inesattissima, perché trascurano tutte le differenze che esistono nella natura. Numerano gli uomini e non li valutano: piú che nell’uomo confidan nell’esercito, piú che nella virtú dell’animo confidano in quella del corpo e piú che nel valore confidan nella tattica. Questi duci piú potenti in parole che in opere prevalgon sempre, per disgrazia delle nazioni, o quando gli ordini militari di uno Stato sono tali che tutta l’esecuzione di una guerra dipenda da un’assemblea e da un Consiglio, o quando coloro che reggono la somma delle cose non sono esenti da ogni spirito di partito; e questo non è certamente il minore de’ mali che lo spirito di partito e gli ordini mal congegnati soglion produrre.
Capitolo 13
I governi son simili agli uomini: tutte le passioni sono utili al saggio e forman la rovina dello stolto. Il timore che la corte di Napoli ebbe de’ francesi, invece d’ispirarle una prudente cautela, fu cagione di rovinosa viltá. A forza di temerli, li rese piú terribili di quello che erano.
Una persona di corte mi diceva, pochi giorni prima di dichiararsi la guerra, esser prudente consiglio non far sapere al soldato che egli andava a battersi contro i francesi e, con tale idea, l’essersi imaginato quel gergo equivoco col quale fu scritto il proclama e col quale si ottenne di tener celato fino al momento dell’attacco il vero oggetto della spedizione. — Ebbene! — dissero i soldati quando lo seppero — ci si era detto che noi non avevamo guerra coi francesi! — Questa non è stata una delle ultime cagioni per cui in Napoli hanno mostrato piú coraggio le leve in massa che le truppe regolari, ed il coraggio, invece di scemar colle disfatte, è andato crescendo. E sarebbe cresciuto anche dippiú, se il generale non fosse stato Mack. Vi è della differenza tra l’avvezzare un popolo a disprezzare il nemico ed il fargli credere che non ne abbia: il primo produce il coraggio, il secondo la spensieratezza, cui nel pericolo succede lo sbalordimento. Cesare i suoi soldati, spaventati talora dalla fama delle forze nemiche, non confortava col diminuirla, ma coll’accrescerla. Una volta che si temeva vicino l’arrivo di Iuba, ragunati a concione i soldati: — Sappiate — loro disse — che tra pochi giorni sará qui il re con dieci legioni, trentamila cavalli, centomila armati alla leggiera e trecento elefanti. Cessate quindi di piú vaneggiare per saper quali sieno le sue forze. — Cesare accrebbe il pericolo reale, che, sebben grande, ha però un limite, per toglier quello della fantasia, che non ha limite alcuno. Cosí voglion esser governati tutt’i popoli.
Lo stesso timore, che la corte ebbe ne’ primi rovesci, le ispirò il consiglio di una leva in massa. Si pubblicò un proclama, col quale s’invitarono i popoli ad armarsi e difendere contro gl’invasori i loro beni, le loro famiglie, la religione de’ padri loro: fu la prima volta che fu udito rammentare ai nostri popoli ch’essi erano sanniti, campani, lucani e greci. Fu commesso ai preti di risvegliare tali sentimenti in nome di Dio. Queste operazioni non mancano mai di produrre grandi effetti. Il fermento maggiore fu in Napoli, dove un popolaccio immenso, senza verun mestiere e verun’ educazione, non vive che a spese de’ disordini dei governo e de’ pregiudizi della religione.
Ma questo istesso fermento, che doveva e che potea conservare il Regno, divenne, per colpa di Acton e per timore della corte, la cagione principale della sua rovina. Il popolo corse in folla al palazzo reale ad offerirsi per la difesa del Regno. Un re, che avesse avuto mente e cuore, non aveva a far altro che montare a cavallo e profittare del momento di entusiasmo: egli sarebbe andato a sicura vittoria. Acton lo ritenne. Il popolo voleva vederlo. Egli non si volle mostrare, ed in sua vece fece uscire il generale Pignatelli ed il conte dell’Acerra. Tra le tante parole che in tale occasione ciascuno può immaginare essersi dette, uno del popolo disse: i mali del Regno esser nati tutti dagli esteri che erano venuti a far da ministri; prima godersi profonda pace e generale abbondanza, da quindeci anni in qua tutto esser cangiato; gli esteri esser tutti traditori: quindi, o per un sentimento di patriotismo, di cui il popolo napolitano non è privo, o per ispirito di adulazione verso due cavalieri popolari, soggiunse: — Perché il re non fa primo ministro il general Pignatelli e ministro di guerra il conte dell’Acerra? — Queste parole, raccolte da’ satelliti di Acton e riferite a lui, mossero il di lui animo sospettoso ad accelerare la partenza. Da che mai dipende la salute di un regno!
Fu facile trarre a questo partito la regina. A trarvi anche il re, si fece crescere l’insurrezione del popolo. Gli agenti di Acton lo spinsero la mattina seguente ad arrestare Alessandro Ferreri, corriere di gabinetto, il quale portava un plico a Nelson: moltissimi hanno ragioni di credere che costui fosse una vittima giá da lungo tempo designata, perché conscio del segreto delle lettere di Vienna alterate in occasione della guerra. Io non oso affermar nulla. Sia caso, sia effetto della politica del ministro o della vendetta di qualche suo inimico privato, fu arrestato sul molo nel punto in cui s’imbarcava per passare sul legno di Nelson, fu ucciso, ed il cadavere sanguinoso fu strascinato fin sotto il palazzo reale e mostrato al re in mezzo alle grida di «Morano i traditori!», «Viva la santa fede!», « Vivail re!». Il re era alla finestra; vide l’imponente forza del popolo e, diffidando di poterla reggere, incominciò a temerla. Allora la partenza fu risoluta.
Furono imbarcati sui legni inglesi e portoghesi i mobili piú preziosi de’ palazzi di Caserta e di Napoli e le raritá piú pregevoli de’ musei di Portici e Capodimonte, le gioie della corona e venti milioni e forse piú di moneta e metalli preziosi non ancora coniati, spoglio di una nazione che rimaneva nella miseria. La corte di Napoli avea tanti tesori inutili, ed intanto avea ruinata la nazione con un disordine generale nell’amministrazione, con un vuoto nelle finanze e ne’ banchi; avea minata la nazione, mentre potea accrescer la sua potenza, rendendola piú felice: la corte di Napoli dunque avea sempre pensato piú a fuggire che a restare! S’imbarcò di notte, come se fuggisse il nemico giá alle porte; e la mattina seguente (21 dicembre) si lesse per Napoli un avviso, col quale si faceva sapere al popolo napolitano che il re andava per poco in Sicilia per ritornare con potentissimi soccorsi, ed intanto lasciava il general Pignatelli suo vicario generale fino al suo ritorno.
Il popolo mostrò quella tacita costernazione, la quale vien meno dal timore che dalla sorpresa di un avvenimento non previsto. Ne’ primi giorni che il re per tempo contrario si trattenne in rada, tutti corsero a vederlo ed a pregarlo perché si restasse; ma gl’inglesi, i quali giá lo consideravano come lor prigioniere, allontanavano tutti come vili e traditori. Il re non volle o non gli fu mai permesso di mostrarsi. Questi duri e non meritati disprezzi, la memoria delle cose passate, la perdita di tante ricchezze nazionali, i mali presenti, passati e futuri diedero luogo alla riflessione e scemarono la pietá. Il popolo lo vide partire a’ 23 dicembre senza dispiacere e senza gioia.