Salari bassi e nepotismo portano i giovani italiani fuori strada
31 Ottobre 2007
Mentre il Paese discute con
affanno le misure della prossima Finanziaria e si divide sul cosiddetto nuovo
Welfare, le Agenzie di stampa riportano gli esiti di Rapporti sui giovani che fanno
trattenere il fiato a chi si occupa e preoccupa del futuro delle giovani
generazioni e che, al contrario, scivolano distrattamente nelle ultime pagine.
Infatti,
l’Istituto IARD da un lato e il Consorzio Interuniversitario ALMALAUREA
dall’altro ci hanno fatto sapere attraverso i loro Rapporti sulla condizione
giovanile e occupazionale che i nostri ragazzi non se la passano per nulla
bene. Per la verità, non si tratta di novità assolute, visto che già da qualche
anno l’ISTAT, il Ministero del Lavoro e il CNEL ci hanno messo in guardia
rispetto a fenomeni perversi quali quelli di considerare “giovani”, uomini e
donne fino a 34 anni, età in cui, forse, i figli escono dalle famiglie di
origine: gli ormai famosi “bamboccioni”, per usare l’infelice espressione di
TPS.
Ma,
quello che hanno affermato i Rapporti su richiamati e, sempre in questi giorni,
il Governatore Draghi a proposito di “bassi salari” e di “produttività (dei
giovani) meno adeguata al paradigma tecnologico corrente di quanto non lo fosse
la produttività delle generazioni entrate nel mercato del lavoro nei decenni
passati al vecchio paradigma”, aggiunge qualcosa di nuovo, poiché sotto accusa
finisce per direttissima il sistema di istruzione e formazione.
Un
sistema di istruzione e di formazione che non è più capace di creare classe
dirigente e che è diventato, per questo, un sistema socialmente parassitario.
Formare classe dirigente, in una società anche da noi ormai globalizzata, post
industriale, multiculturale e della conoscenza dovrebbe significare, infatti, anzitutto,
innalzare per tutti la qualità dell’istruzione e della formazione posseduta. Il
tradizionale programma dell’elitismo gentiliano, quello dei pochi ma buoni non
basta più. Abbiamo bisogno di almeno la maggior parte se non di tutti buoni,
nei settori culturali e professionali in cui ciascuno può eccellere.
Dal
Rapporto IARD emerge, invece, che i settori professionali sono per lo più protetti
e/o a mandato quasi ereditario (i figli dei medici che fanno i medici, dei
giornalisti che fanno i giornalisti, degli avvocati che fanno gli avvocati
ecc.), e che, conseguentemente, alle professioni non si arriva attraverso il
merito e la leale competizione ma attraverso le reti “amici” e “familiari” che
garantiscono la ricerca del primo lavoro. Il IX Rapporto di ALMALAUREA non è
meno inquietante quando punta l’indice, proprio come fa il Governatore Draghi,
sulle retribuzioni dei giovani laureati. Infatti, dalla Ricerca emerge che non
solo ad un anno dal diploma solo meno della metà dei giovani laureati del
nostro Paese trova un’occupazione, ma che gli stipendi sono comunque da fame.
Nel 2004 un giovane laureato di primo livello guadagnava circa 1042 euro al
mese, dal 2005 si è scesi a 969 euro, 7% in meno e non è detto che la
situazione non peggiori.
Insomma, la massa dei giovani laureati fino a 35 anni,
se lavorano, e spesso svolgono un lavoro che non ha attinenza con la formazione
ricevuta e per il quale non viene richiesto il titolo di studio di diploma o di
laurea (una sorta di “sovraqualificazione dequalificata”), guadagnano quanto un
operaio specializzato. Questa realtà dovrebbe far tremare i polsi ai decisori
politici e a quanti, dalle forze sociali a quelle imprenditoriali, hanno
sprecato con immobilismi e visioni conservatrici la grande opportunità che la
cosiddetta “generazione mille euro”, rispetto alle generazioni precedenti, ha
avuto: quella di studiare per 13 anni (fino alla conclusione degli studi
superiori) o per 16 anni (fino alla laurea triennale) o addirittura per 18 anni
(fino alla laurea quinquennale).
Ma
allora, cosa non ha funzionato e non funziona? Perché,
come sostiene il Governatore Draghi, la nostra classe dirigente non è
competitiva e qualificata?
In
primo luogo, i troppi e i tanti ritardi accumulati in questi anni per far sì
che il sistema educativo nel suo complesso potesse essere all’altezza delle
nuove sfide. E
soprattutto, l’aver conservato l’handicap storico della nostra classe
dirigente: quello per il quale i suoi appartenenti si sono per lo più vantati
di non saper “avvitare una lampadina”,
in quanto si realizzavano soprattutto nella coltivazione di utopie e di deliri
ideologici.
In
questo senso, i traguardi non più procrastinabili per dare un futuro alla
nazione e ai giovani dovrebbero riguardare:
– la valorizzazione della
migliore lezione della cultura occidentale, secondo la quale non può esistere
cultura umanistica senza cultura scientifica e tecnologica, e viceversa, e che
queste due dimensioni del sapere devono stare sempre insieme, autentiche e non
semplificate da logiche scompositive ed alienanti (troppe discipline con troppi
indirizzi nelle scuole superiori e troppi corsi di laurea nelle Università) per
essere indispensabili per qualsiasi vera formazione umana;
–
il superamento del pregiudizio per cui chi “sa” “non fa” e chi “fa” “non sa”,
chi studia non deve lavorare, fare, operare con le mani e chi lavora, simmetricamente,
non deve studiare;
– dimostrare, infine, che le
due consapevolezze precedenti hanno la loro scaturigine e trovano la loro
stessa condizione di praticabilità all’interno di una prospettiva personalista
secondo cui c’è davvero istruzione e formazione e vero sviluppo quando si
esalta il compimento di ogni persona, nella unicità della sua intelligenza,
libertà e responsabilità.
Occorre,
insomma, senza perdere altro tempo, rivoltare come un calzino il sistema
educativo nazionale e garantire che:
–
siano modernizzati i percorsi di studio e resi più flessibili e più attraenti
rispetto alle attitudini e ai talenti di ogni studente, con un’attenzione
particolare allo studio delle lingue, delle nuove tecnologie e delle scienze,
come auspicato dal Processo di Lisbona;
– vi
sia una revisione dei piani di studio secondari e universitari nella
prospettiva di assicurare in tutti i percorsi che pur devono restare specifici
(e valorizzare questa loro specificità) la presenza di quella circolarità tra
dimensione tecnica, scientifica e umanistico-morale di cui si diceva;
–
siano favoriti percorsi di eccellenza a livello secondario e terziario con
incentivi e corsie preferenziali per superare l’uniformità nella formazione
prima e nell’occupazione poi;
– vi
sia pari dignità educativa e culturale tra percorsi formativi liceali e di
istruzione e formazione tecnico-professionale di primo e di secondo livello,
collegati con il mondo produttivo e quello della ricerca;
– si
possa rendere sistematica la metodologia dell’alternanza scuola lavoro a
livello secondario e superiore per legare sempre più formazione e territorio,
teoria e pratica, perché abbiano cittadinanza anche nel nostro Paese il
pensiero manuale e la cultura del lavoro, colpevolmente sviliti fino ad oggi
nei percorsi formativi;
– si
incoraggino, anche in questo caso attraverso incentivi e crediti formativi, i
ragazzi fin da quando sono giovani davvero (entro i 18 anni e massimo entro i
24) a confrontarsi con le culture degli altri Paesi europei e non, attraverso i
progetti europei Socrates ed Erasmus;
– siano, altresì, incoraggiati a ricercare,
attraverso esperienze di lavoro temporaneo e flessibile, anche l’autonomia
economica.
Fino
a quando, tutte o in parte, queste innovazioni non rientreranno tra le
caratteristiche del nostro sistema educativo non avremo fatto tutto ciò che i
nostri giovani hanno diritto di aspettarsi dal loro Paese per il loro futuro e
a nulla serviranno le “lacrime di coccodrillo”.
Valentina Aprea è Responsabile Nazionale
Dipartimento Scuola di Forza Italia