Salvare una vita a tutti i costi può costare troppo
13 Aprile 2007
Dai tradizionalisti che vorrebbero incatenare all’esistenza “un tronco che sente e pena” – senza tenere in alcun conto il suo volere nonché la dignità e la qualità della vita – agli apologeti non pentiti dei guardiani della rivoluzione maoista e dei khmer rossi, “s’ode a destra uno squillo di tromba, a sinistra risponde uno squillo”: la vita, la vita, innanzitutto, il resto deve passare in secondo piano! Il senso dell’adagio latino propter vitam, vivendi perdere causas ormai ha la stessa incomprensibilità dei geroglifici per un digiuno di egittologia. Quanti imprecano contro la civiltà consumistica e materialistica sembrano non avvedersi, però, di esserne le prime vittime: nella desertificazione dei valori, infatti, si aggrappano disperatamente all’unico sopravvissuto, il bios, il mero dato naturale del vivere, il battito del cuore, pur se non accompagnato da nessuno sprazzo di coscienza. A ben riflettere, è il punto d’approdo della desacralizzazione dei simboli, un processo iniziato, più di duecento anni fa, con il razionalismo tardo-cartesiano dell’illuminismo francese e del tutto estraneo alla ragionevolezza dell’Enlightment anglo-scozzese, con il suo primato della “società civile” alle origini del mercato, del costituzionalismo e del governo limitato.
Caduti gli dei e divenuti incerti, evanescenti, se non pericolosi, valori come “patria”, “stato”, “nazione”, si ritiene che nessuna “autorità temporale”, almeno sul piano morale, possa costringere un uomo a farsi ammazzare per “l’ideale”. In tal modo, viene cancellato quel conflitto di valori, che ha ispirato alcuni tra i pensatori più alti del secolo scorso, come Max Weber e Georg Simmel. Non c’è conflitto, infatti, se i nomoi diversi dal bios non sono più sentiti come valori o, comunque, hanno uno status talmente ridotto e secondario da non meritare più alcuna seria considerazione. E’ una rinuncia che fa venire in mente quella ai piaceri della carne fatta dall’impotente.Purtroppo alla mutazione degli “stati della mente” non ne segue una analoga nella “realtà effettuale”. Qui l’imperativo categorico del primum vivere rischia di diventare il lievito di un rosolio buonista che, per salvare un uomo, ne espone disinvoltamente altri mille al pericolo. Nella scena della storia – ne siano o meno consapevoli i “pagliacci” che Togliatti invitava ad uscire – gli aridi conteggi contano più delle anime belle. Qui bisogna sapere che se si salva Mastrogiacomo (ma non l’autista e l’interprete) e si mettono in libertà cinque capi taliban, si condannano a morte centinaia, forse migliaia, di altri esseri umani; bisogna sapere che non si coordinano con gli alleati le politiche intese a salvare gli ostaggi, un prezioso funzionario come Nicola Calipari può perdere la vita per liberare la passionaria antiamerikana Giuliana Sgrena; bisogna sapere che i milioni versati per le due Simone serviranno a comprare altre armi per organizzare attentati alle nostre truppe e a quelle alleate sui vari fronti mediorientali.
Se questo è vero, finiamola con l’ipocrisia della vita-valore-supremo: diciamo, piuttosto, che la vita dei nostri vale più di quella dei loro. Sarebbe, dopo tanto tempo, la rilegittimazione del “sacro egoismo”, o meglio la sua ricomparsa senza la maschera dell’etica umanitaria e universalistica contrabbandata come nemica dei “politici maneggi”, dei “calcoli cinici”, della criminale indifferenza dei governi nell’esporre a pericoli mortali i comuni cittadini, figli e padri di famiglia.
Forse non è un caso che, al giorno d’oggi, in Occidente, gli statisti, disposti a mandare al fronte i loro governati, siano espressione di grandi e secolari democrazie. Per rischiare la vita propria e di altri, infatti, bisogna “credere in qualcosa”, avere un’etica forte, un Super-Io capace di tener a freno il pur legittimo desiderio di una esistenza tranquilla, al riparo dalla violenza. Chi non crede neppure nella sua ombra può essere indotto a partecipare a una guerra se costretto da impegni internazionali, ma lo farà obtorto collo, senza convinzione, senza intima fiducia nella bontà della causa.
A prevenire obiezioni idiote, non sto facendo l’elogio della guerra e, per quanto riguarda quelle in corso, nutro non pochi dubbi sulla giustezza delle decisioni americane. Ma questo è un altro discorso, che può benissimo veder schierati su posizioni diverse gli uomini “liberi e forti”: una specie umana, nella vecchia Europa continentale, in via di estinzione, sopraffatta dalle legioni di don Abbondi travestiti da Gandhi.