Salvateci dal libertarismo all’italiana e dai nuovi adepti della rivoluzione liberale

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Salvateci dal libertarismo all’italiana e dai nuovi adepti della rivoluzione liberale

23 Aprile 2010

C’è una differenza abissale tra gli autentici pensatori politici e i mestieranti dell’ideologia. Le ‘etichette’ – per dirla in termini più accademici, le ‘sussunzioni categoriali’ – che ai primi vanno sempre troppo strette, per i secondi sono una divisa o, meglio, una indispensabile risorsa identitaria. Alexis de Tocqueville, John Stuart Mill, Benedetto Croce erano tutti liberali atipici, nel senso che la loro produzione intellettuale era talmente ricca e complessa da travalicare il recinto ideologico nel quale, non a torto, vengono rinchiusi per comodità di classificazione ed esigenze didattiche. Prima di loro, accanto a loro, dopo di loro troviamo legioni di don Ferrante che, in virtù dell’incrollabile ortodossia, potevano ben dirsi assai più ‘liberali’. Isaiah Berlin dichiarava candidamente di essere più interessato agli anarchici, ai romantici reazionari, ai tradizionalisti alla de Maistre, di quanto non lo fosse ai maestri della ‘società aperta’ che, in fondo, pensandola come lui, non attivavano la sua immaginazione.

Raymond Aron non scrisse nulla su Benjamin Constant – il momento più alto del liberalismo francese nell’età della Restaurazione – ma dedicò interi corsi universitari e corposi saggi a Karl Marx e ad Auguste Comte, gli alfieri ottocenteschi della ‘società chiusa’. E tuttavia quanti si lasciano agevolmente etichettare svolgono anch’essi una funzione utile. Spesso, infatti, proprio con i loro tratti, per così dire, ‘caricaturali’, ci mettono in guardia – del tutto involontariamente, s’intende – dal bigottismo ideologico e, per converso, ci fanno comprendere la profondità e la complessità di autori che possono pure definirsi’ democratici’, ’liberali’, ’conservatori’ ma che rimangono nella storia delle idee politiche per la capacità di porre problemi all’interno del loro stesso campo, di aprire nuovi spazi alla ricerca e alla riflessione, di costringere gli avversari a fare i conti con loro. Sicuramente Stalin era più marx-leninista di Antonio Gramsci ma chi si occuperebbe del pensatore sardo se i suoi ‘Quaderni’ fossero mere trascrizioni catechistiche del dogma comunista?

Con questa premessa, intendo giustificare la scelta di un obiettivo polemico che altrimenti sarebbe incomprensibile. Già altre volte mi sono occupato del libertarismo e di ciò che lo distingue dal liberalismo – un cugino di secondo grado ma non un fratello uterino. Oggi torno sul tema con un case study tanto poco rilevante sul piano teorico quanto straordinariamente utile sul piano didattico. E’ un articolo pubblicato dal quotidiano ‘Europa’ il 2 ottobre 2009 con un titolo non poco ‘intriguing’, L’identikit del perfetto liberale. L’Autore, Pier Paolo Segneri,noto solo in una ristretta cerchia di politici e giornalisti della capitale (non gliene si fa certo una colpa), milita nel centro-sinistra – scelta, peraltro, del tutto rispettabile. Nello schieramento di Bersani e di Rosy Bindi, però, ambisce a dar voce a quell’area liberal-libertaria, da molti anni dominata dalla figura di Marco Pannella, candidandola a cultura egemone di un Pd profondamente rinnovato. Se fossi un militante del Pdl, mi augurerei vivamente il successo dell’operazione che sarebbe il colpo di grazia per uno schieramento oggi allo sbando; come cittadino e come studioso super partes, però, non posso non essere preoccupato dalla deriva di un polo politico, la sinistra, indispensabile a una normale dialettica democratica. L’analisi dello scritto di Segneri, pertanto, può servire non soltanto a mettere a fuoco il ‘libertarismo all’italiana’, rivelandone l’intrinseca inconsistenza, ma, altresì, a mettere in guardia gli eredi del PCI e della DC dossettiana dal ‘suicidio assistito’cui vorrebbero indurli i nuovi adepti della ‘rivoluzione liberale’.

La mia tesi è che L’identikit del perfetto liberale non ‘identifica’ né il liberalismo, né il libertarismo, né altra dottrina affine ma tenta di riaccendere, ancora una volta, quel fuoco di paglia che, nelle varie stagioni della storia nazionale, ha alimentato fenomeni pur diversi come l’interventismo, il fascismo, il sessantottismo. A caratterizzarlo è un entusiasmo attivistico che si appropria di quanto di ‘buono’ – o di creduto tale – trova sul suo cammino, lo priva dei suoi tratti storici specifici e distintivi e lo immerge in un minestrone ideologico sempre in ebollizione e pronto ad accogliere nuovi ingredienti. Così nella mente di Segneri, Ludwig von Mises e Marco Pannella, Karl Popper e Norberto Bobbio, Luigi Einaudi e Antonella Casu diventano membri della stessa famiglia, voci diverse dello stesso coro oggi diretto dai Radicali definiti – ‘bontà sua’– «liberali al 100 per cento». Il linguaggio è un misto di pragmatismo e di profezia, che sembra, a tratti, una inconsapevole caricatura de l’ homme qui cherche di mussoliniana memoria (il Mussolini ‘seconda maniera’ non più massimalista, non ancora fascista):

«Il pensiero liberale è un cammino di ricerca. È un territorio sconosciuto da scoprire. È un luogo di partenza, non un punto di arrivo. È un percorso di conoscenza, non una Verità rivelata. Il pensiero liberale è una filosofia della libertà, non un obbligo ideologico. È una spinta al cambiamento, non una struttura vecchia e coercitiva. Il liberale non cerca l’identità. Solo chi non ha memoria, ha bisogno di cercare la propria identità. E chi non ha memoria, vive in un eterno presente e non ha futuro».

Poche frasi come questa, danno il senso del surrealismo libertario, del vuoto d’aria che dà fiato alle sue trombe: la politica non è quella cosa terrena e concreta in cui si affrontano valori e interessi non sempre componibili e programmi alternativi che devono farsi intendere da tutte le teste, è il campo di esercitazioni dei filosofi eraclitei che «cercano», che non si fermano mai in nessuno dei territori esplorati, che sono proiettati verso il futuro perché non hanno bisogno di «cercare la propria identità» recando con sé la loro memoria. Più chiaro di così!

E in un delirio dialettico e ossimorico, il ‘libertario’ prosegue :

«L’identità principale dei liberali è quella di cambiarla, l’identità. Perché il liberalismo vive nell’antico che si fa nuovo, nella memoria che si fa presente e si proietta verso l’avvenire. Con una visione, un progetto, una speranza… I liberali si rinnovano sempre perché si fanno essi stessi speranza per il cambiamento. E ogni cambiamento è una scoperta, per sé e per gli altri che ci sono vicini. Perché il metodo liberale procede per errori, per sconfitte, per cadute. Ma ha la forza di vedere, in ogni fallimento, le ragioni della ricerca di giustizia e di giustezza».

S’immagini questo discorso tenuto in una vecchia sezione del PCI o in una cellula padana della Lega: l’identità è il cambiamento, l’antico è nel nuovo, le cause delle cadute rivelano le ragioni della giustizia etc. E’ facilmente immaginabile il commento del Senatur ma, forse, anche il vecchio Voltaire davanti a tanto sterile fuoco d’artificio concettuale, avrebbe chiosato, come già fece (e a torto) per i Pensieri di Pascal: «vraies pensées de malade»!

Dalle vette dell’etica Übermensch, Segneri ci riporta, tuttavia, sulla terra, agli uomini in carne e ossa, con una citazione di «Ludwig von Mises, uno dei padri del liberalismo»: «Solo l’individuo pensa; solo l’individuo ragiona; solo l’individuo agisce» ma subito dopo riprende a volare allorché si chiede «Ma che cosa significa pensare, agire ed essere liberali oggi? Liberale, nel 2009, vuol dire “riformatore”. Dichiararsi liberali vuol dire ragionare come centro propulsore del rinnovamento della politica italiana». Perché oggi un liberale debba essere riformatore e in quale direzione, naturalmente non viene affatto chiarito :si esclude soltanto, in maniera tassativa e secondo la logica del più puro ‘attivismo’, che, almeno in qualche settore della vita pubblica e della società civile, si possa tornare indietro. La consegna del libertario è «andare sempre avanti» e boia chi molla! Si può anche comprendere la frenesia novistica della sinistra liberale ma rimane oscuro il nesso con l’individualismo di Mises.
D’altra parte chiedere punti fermi è difficile in un discorso in cui tutto si muove e le stesse categorie trapassano le une nelle altre, diventando una indistinta pappetta liberal-libertaria.

«Essere laici, democratici, libertari, radicali e socialisti significa, oggi, usare dei vocaboli divenuti tra loro sinonimi. E sono ormai tutti sinonimi del termine liberale. Chi è liberale non possiede una verità in tasca o una ricetta prestabilita. Ma va alla ricerca delle verità, al plurale, rinnovando ogni giorno le proprie domande ai quesiti ancora irrisolti. E anche quelli di cui già sa o ha la risposta. Perché valuta se tale risposta è ancora valida: se ha retto al passaggio del tempo, al mutare dei costumi e delle situazioni».

Si potrebbe ironizzare su questa dissoluzione teoretica del «principio di identità» ma lasciamo perdere. Vanno rilevati, invece, almeno due aspetti inquietanti contenuti in questa generosa filosofia dell’accoglimento di famiglie ideologiche un tempo divise: il primo è l’appropriazione indebita, da parte libertaria, della caratteristica cruciale della modernità, alle origini della ‘crisi della coscienza europea’: il fatto che nessuno abbia più «una verità in tasca o una ricetta prestabilita» – uno scetticismo condiviso non solo dalla ‘democrazia dei moderni’ e dal’conservatorismo dei moderni’ (Metternich era un hobbesiano) ma persino da talune correnti del cattolicesimo non ignare che la perfezione non è di questo mondo e che il politico deve procedere per prove ed errori nella costruzione di una convivenza «meno» disumana; il secondo aspetto è un oggettivo ‘totalitarismo del concetto’: se il liberalismo libertario è il compendio di tutte quelle cose buone che si son dette, chi se ne pone ‘fuori’ – e, detto molto alla buona, ‘milita in un partito diverso da quello di Segneri–quale diritto sostanziale può rivendicare al rispetto e all’ascolto? Dovrà necessariamente accontentarsi della ‘tolleranza’ che il liberale libertario non violento, pluralista e quant’altro riserva a tutti (anche ai punk bestia e alle sette sataniche… purché non rechino danno al prossimo).

E’ curiosa la ‘divisione del lavoro’ sottesa al discorso libertario. A far la parte di don Chisciotte e a perseguire ambiziosi disegni di rigenerazione etica e politica è Segneri, a tranquillizzare il lettore, mettendogli dinanzi obiettivi assai più modesti e comprensibili ovvero a far la parte di Sancho Panza sono i grandi liberali del nostro tempo.

«Per liberale – scrive Karl Popper– intendo un uomo che dà importanza alla libertà individuale ed è consapevole dei pericoli inerenti a tutte le forme di potere e di autorità». Se non è attuale questo discorso di Popper, cos’altro lo è? E di che cosa si vuol discutere, se non del rapporto e del conflitto nonviolento e dello scontro politico tra liberali e potere?»

Sennonché, quale ideologia ‘moderna’ esalta il potere per il potere, l’autorità per l’autorità? I giacobini non instaurarono il Terrore proprio per togliere il «potere» all’aristocrazia e alle classi privilegiate in genere e restituirlo agli individui? E i socialisti non miravano alla conquista dello Stato per spezzare le catene del privilegio di classe e porre tutti i lavoratori sullo stesso piano, per quanto riguarda la dignità, il benessere, i diritti? Norberto Bobbio–citato da Segneri–che voleva, da buon azionista, l’economia a doppio settore, la costituzionalizzazione dei diritti sociali, non fondava il suo socialismo liberale sull’individualismo? «Eliminate una concezione individualistica della società. Non riuscirete più a giustificare la democrazia come forma di governo».

«Liberale è colui che apre la mente verso l’alterità, la diversità, il proprio opposto |…| il liberale si basa sempre sul rispetto della persona, della dignità umana, della regola. La libertà è basata sulla responsabilità, sulla giustizia e sullo stato di diritto. Resta sempre valido, perciò, l’antico motto: «Non c’è libertà senza giustizia e non c’è giustizia senza libertà».»

Quante vuote chiacchiere vien voglia di commentare! Ma la chiacchiera non è innocua giacché con queste ghirlande di valori buoni che incoronano una ‘pars politica’, viene messo in ombra il volto di Giano del liberalismo, che è, insieme, ‘regola’ e ‘conflitto’ dove il conflitto, però, non è quello tra bene e male – come credono i bigotti di tutte le ideologie pre-secolari – ma può investire i valori più alti come la giustizia e la libertà, che non sono gemelli monozigoti ma divinità spesso in competizione, capaci di stipulare armistizi più o meno lunghi, a seconda della capacità di bargaining di un sistema politico, ma non paci durature.

A ben vedere, a spiegare la fatuità di questo pensiero libertario, debole e buonista, è la riduzione di una teorica politica esigente e strutturata, come il liberalismo, a ‘metodo’, un termine evanescente privo di ogni concreto riferimento concettuale concreto e divenuto sinonimo di ‘intuizione’, di capacità di vedere, di volta in volta, in quale direzione soffia il vento del «vero liberalismo».

Lo dimostra inequivocabilmente la conclusione cui approda Segneri

«Insomma, il pensiero e l’azione liberale non sono un’ideologia, non sono una dottrina dogmatica, non sono mai e in nessun caso un assolutismo politico. Anzi, il metodo liberale è anti-ideologico, anti-totalitario, anti-dogmatico. Luigi Einaudi asseriva che il liberalismo «è quella politica che concepisce l’uomo come fine». Quindi, liberale è colui che si oppone al potere come fine. Dunque, oggi, nel nostro paese, è liberale chi sceglie un’alternativa riformatrice rispetto alla staticità della non democrazia italiana, dell’ingiustizia, dell’egoismo, del pregiudizio, della violenza, del monopolio, del proibizionismo, del protezionismo e degli assolutismi, di ogni genere e specie, che usano l’uomo come mezzo, come strumento, come veicolo per il raggiungimento e il mantenimento del potere».

Sono parole che fanno venire in mente un aneddoto che circolava nella Spagna dell’immediato postfranchismo. Santiago Carrillo, in un comizio, sta assicurando che il PCE è rispettoso dell’ordine, della legalità, della proprietà privata, della monarchia, a un certo punto un vecchio militante lo interrompe: «Compañero Carrillo lascia qualcosa anche a Fraga Iribarne!».

Dinanzi all’antropofagia politica del libertario, che avendo fatto incetta di tutti i valori in campo, non può che ricadere, pur senza volerlo ed esserne consapevole , nella premoderna eticizzazione e sacralizzazione della politica – se democrazia, libertà, giustizia, altruismo etc. stanno da una parte, che cosa rimane nell’altra se non « egoismo, pregiudizio, violenza, monopolio, proibizionismo, protezionismo» etc.? – forse è venuto il momento di ricordare alcuni tratti decisivi del «liberalismo reale»:

1. il riconoscimento della pluralità dei valori e della loro difficile e problematica convivenza;
2. la consapevolezza che gli dei sono tanti («laici, democratici, libertari, radicali e socialisti ») e che solo la mens totalitaria può pensare di rinchiuderli in un unico Pantheon;
3. la presa di coscienza che giustizia, altruismo, individualità, autonomia possono avere significati diversi a seconda dei tempi, dei luoghi, degli ambienti sociali e che né i liberali né gli altri hanno le ricette infallibili contro l’ingiustizia, l’egoismo, il pregiudizio, la violenza etc.;
4. il senso profondo dei limiti dell’agire umano, fondato sull’idea del ‘peccato originale’ (da Kant ritradotto nel ‘legno storto’ dell’umanità) e, quindi, la rinuncia a ogni tipo di perfettismo: sia a quello forte, totalitario, sia a quello debole, che crede di poter conciliare eguaglianza e libertà con la buona volontà e con leggi ‘appropriate’;
5. la distinzione netta tra lo ‘spirito della modernità’ e lo ‘spirito del liberalismo’. Il liberalismo sta nel moderno ma ne è solo una parte. A distinguerlo dai parenti ideologici vicini e lontani, non è genericamente un’«etica» e tanto meno un «metodo» ma il convincimento radicato che le «promesse della modernità» hanno qualche probabilità di realizzarsi solo in presenza di talune istituzioni specifiche: uno Stato forte, sì, ma in un ambito rigorosamente delimitato dalle leggi e dai costumi; un’economia di mercato fondata sulla proprietà privata e sul perseguimento del profitto; il primato dei ‘diritti soggettivi’ sull’«interesse pubblico»; la separazione dei poteri, effettiva solo in un sistema politico nel quale il cittadino non si attende il posto al sole dalle decisioni dei governi e dalle sentenze dei magistrati ma dalla sua fortuna e dalla sua abilità.

Dopo aver letto l’articolo di Segneri resta nell’animo la tristezza di dover constatare che il fascismo, come stato della mente e disposizione dell’animo, in Italia non è ancor morto. Oggi come ottant’anni fa, c’è chi non si rassegna ad essere un giocatore accanto ad altri giocatori – liberale accanto a democratici, a conservatori, a socialisti etc. – ma vuole recitare tutte le parti e, per giustificarsi, ripropone sintesi ardite che, comunque, si vanno sempre più scontrando con le «dure repliche delle urne».