Sapessi come è strano sentir parlare inglese al Politecnico di Milano
01 Maggio 2012
Com’era lecito attendersi, la decisione del Politecnico di Milano di utilizzare “soltanto” l’inglese nei corsi magistrali e di dottorato a partire dal 2014 suscita polemiche sempre più veementi. I fatti sono noti e si collegano all’attuale dibattito – trattato più volte in questo giornale – sull’opportunità di potenziare gli insegnamenti impartiti in lingua inglese nei nostri Atenei. I favorevoli appartengono per lo più ai settori scientifico-tecnologici. Contrari sono in maggioranza gli umanisti.
Nessuno, tuttavia, aveva ancora parlato di rimpiazzare in toto l’italiano con l’inglese nella parte più avanzata dell’offerta formativa, e ora sorge il sospetto che tale mossa sia propedeutica a una futura sostituzione completa, estesa quindi anche alle lauree triennali.
Ho spesso sottolineato che il potenziamento dei corsi in inglese è una necessità nel mondo globalizzato di oggi. Serve ad attirare studenti stranieri e a migliorare le posizioni, in genere piuttosto basse, delle nostre Università nelle classifiche internazionali. Ma è pure ovvio che un conto è potenziare, un altro sostituire del tutto la lingua nazionale con un’altra (sia pure diffusissima come, per l’appunto, l’inglese).
D’altro canto i dubbi vengono espressi anche da esponenti autorevoli dello stesso Politecnico milanese come Pier Carlo Palermo, preside della Scuola di Architettura e società. Si tratta di un docente che insegna in inglese da molto tempo, e che non può quindi essere annoverato tra i contrari a priori. Sul Corriere della Sera del 27 aprile, dunque, Palermo nota che passare tutti all’inglese dal 2014 è impossibile: non si troverebbe un numero adeguato di professori disponibili, con inevitabili ricadute sugli standard di qualità.
Le obiezioni più fondate sono però di carattere culturale ancor prima che pratico. Perché mai gli studenti italiani dovrebbero essere privati della possibilità di utilizzare la loro lingua in parte dei corsi? E perché escludere, inoltre, che ci siano degli stranieri che desiderano venire da noi proprio per studiare in italiano, magari avendo seguito – come in realtà accade – dei corsi preparatori nei loro Paesi d’origine?
Per Palermo bilinguismo e multilinguismo sono valori importanti, notando che in architettura “l’inglese non è la lingua madre”. E non lo è nemmeno, aggiungo, in giurisprudenza, beni culturali, filosofia, storia e tanti altri settori del sapere umano. Alla domanda se l’inglese avvantaggia i laureati italiani nel mercato globale, il preside risponde: “I nostri laureati sono riconosciuti all’estero per la loro formazione, non quella linguistica. La preparazione in inglese non è la nostra missione”.
Eppure il rettore del Politecnico Giovanni Azzone, pienamente sostenuto dal ministro Profumo, sembra tutt’altro che disposto a fare concessioni. La decisione del senato accademico è già stata presa e non sarà facile tornare indietro.
Resta da capire perché, in Italia, si passi sempre da un estremo all’altro. E’ scontato il fatto che da noi i corsi in inglese sono troppo pochi rispetto a quelli che vengono impartiti nelle università di altre nazioni, soprattutto europee. Per quale motivo, tuttavia, si dovrebbe trasformare un Ateneo italiano – sia pure sui generis come il Politecnico – in struttura accademica dalla quale l’italiano è addirittura bandito?
Il provincialismo si declina in molti modi. Da un lato si manifesta con il veto opposto a qualunque corso impartito in lingua straniera. Dall’altro esplode quando si pretende di obbligare tutti i docenti a insegnare in inglese e tutti gli studenti ad apprendere solo in quel modo. Speriamo che, entro il 2014, un po’ di ragionevolezza illumini la mente di rettori e ministri.