Sarkò ai manifestanti: “Sulla crisi timori legittimi”
30 Gennaio 2009
L’economia mondiale è attraversata da una delle peggiori crisi dell’epoca contemporanea e qual è la risposta della Francia? Lo sciopero generale! Niente di nuovo sotto il sole nel Paese che ha fatto del conflitto sociale e dell’irriformabilità del suo asfissiante settore pubblico un dogma novecentesco.
Lo sciopero generale indetto dalle otto sigle sindacali, per una volta unite nel fronte della protesta, è stato senza dubbio un successo, perlomeno dal punto di vista della partecipazione. Le cifre oscillano tra il milione e 100 mila (polizia) e i 2,5 milioni (sindacati) di manifestanti in tutto il Paese. Dunque numeri simili a quelli della grande mobilitazione del 2006 contro il Cpe, del 2003 contro la riforma pensionistica Fillon e ancora del 1995 contro le riforme dell’esecutivo Juppé.
Scorrendo le cifre, dunque, non si incontrano particolari novità e il primo dato da sottolineare come parziale discontinuità rispetto al passato riguarda proprio le ragioni specifiche dello sciopero. Più che occasione per avanzare precise rivendicazioni, la protesta si è presentata come il sintomo di un malessere diffuso, di un malcontento generalizzato, quasi una pulsione di fastidio epidermico, la manifestazione concreta della difficoltà nel rassegnarsi alla logica della crisi economico-finanziaria globale.
I sindacati, arenati nella loro oramai trentennale crisi di rappresentatività, hanno colto l’occasione, cercando di porsi alla guida di un movimento sociale dominato però più da impulsi umorali che da precise rivendicazioni. Il catalogo delle richieste avanzate dai manifestanti è multiforme e riguarda in particolare la perdita di potere d’acquisto degli stipendi, la necessità di aumentare le garanzie in materia di impiego e la rinuncia alla soppressione di 30 mila posti pubblici. Insomma una serie di richieste tutte mirate a contrastare il piano di rilancio economico elaborato a dicembre dall’Eliseo.
Proprio il Presidente della Repubblica è stato il bersaglio preferito degli slogan dei manifestanti, uniti nella convinzione che Sarkozy non stia facendo abbastanza per contrastare l’attuale situazione di crisi. Lo sciopero diventa allora importante più che per la sua specifica natura di rivendicazione sociale, per riflettere sullo stato di salute della democrazia transalpina e su quello dei suoi principali protagonisti.
Innanzitutto il suo Presidente, tornato ad occuparsi a tempo pieno di affari interni dopo la lunga, e ricca di successi, parentesi alla guida dell’Unione europea. La popolarità ottenuta a livello continentale, la sovra-esposizione mediatica nella gestione della crisi caucasica e di quella finanziaria, l’attivismo e il volontarismo che hanno forse cambiato il modo di fare politica nell’Ue, non hanno avuto ricadute significative a livello di politica interna. Il gradimento dell’opinione pubblica transalpina nei confronti di Sarkozy resta abbondantemente sotto il 50% e il Paese (e non solo la sua componente di sinistra) non è in generale entusiasta della risposta del Presidente alla crisi. D’altro canto lo stesso Sarkozy sembra essersi reso conto di attraversare una fase cruciale del suo mandato presidenziale: il 2009, molto probabilmente, sarà decisivo per valutare le chances di un secondo mandato.
L’inquilino dell’Eliseo ha così iniziato l’anno con un vero e proprio tourbillon di incontri, spostamenti in provincia ed interventi pubblici a tutto campo, dal mondo della scuola a quello ospedaliero, passando per cultura, sport, operatori della sicurezza, imprenditori e parti sociali. L’obiettivo è stato più volte anche esplicitamente ribadito: scongiurare lo spettro di Chirac e del suo immobilismo. Il predecessore di Sarkozy, eletto nel 1995 per guarire il Paese dalla sua “frattura sociale”, fu travolto immediatamente da un’ondata di risentimento popolare che lo portò poi ad una lunghissima gestione poco più che amministrativa del Paese. Sarkozy conosce bene questa situazione ed è consapevole che la sua vittoria nel 2007 deve molto alla promessa di rottura rispetto alla gestione Chirac.
Per confermare la sua attitudine al movimento ha scelto una serie di interventi mirati come quelli di imporre ai grandi banchieri la rinuncia ai loro bonus milionari, l’aumento di mezzo punto di interesse sui depositi del «livret A», l’aumento degli effettivi in polizia, la soppressione del giudice istruttore e l’aumento di 5000 unità del personale scolastico, slegandoli dal più articolato, ma anche più lento da attuare, percorso complessivo di riforma del Paese. Questo obiettivo non è scomparso dalle priorità di Sarkozy, ma la lunga fase emergenziale ha inevitabilmente fatto emergere la vera “ferita aperta” che la politica francese si trascina dalla fine dei "Trenta Gloriosi" (il periodo di crescita continua 1945-1975): la difficoltà nel guidare la riforma del Paese. Al primo posto delle priorità del neo-eletto presidente Sarkozy c’era l’intenzione di rompere con una tradizione, in gran parte legata al ricordo della paralisi economico-sociale del maggio ’68, fatta di prudenza e timore reverenziale da parte delle élites politiche nei confronti di un sistema economico, sociale e amministrativo cristallizzato.
L’impressione è quella che, dopo aver ritirato un mese fa la proposta di riforma del liceo a seguito di una minaccia di mobilitazione generale delle scuole, Sarkozy cominci a rendersi conto di quanto
Una seconda riflessione riguarda il principale partito di opposizione, quei socialisti che hanno impiegato gli ultimi sei mesi nel tentativo di regolare le proprie questioni interne, concludendo il loro congresso in un clima da “lunghi coltelli”, con un nuovo primo segretario, Martine Aubry, nettamente più a sinistra dell’uscente Hollande e una Ségolène Royal marginalizzata nell’apparato, ma ancora in grado di raccogliere circa la metà dei suffragi dei militanti. Di fronte alla crisi economica e al ritorno insistente del tema dello Stato regolatore, il Ps non ha fatto altro che riproporre le categorie di analisi del mitterrandismo di inizio anni ’80, fondate sugli aiuti diretti al consumo (e non sugli investimenti) e sulle parole d’ordine dell’anti-capitalismo e della logica anti-imprenditoriale. La mozione di censura presentata martedì dal Ps e naturalmente respinta dall’ampia maggioranza di centro-destra (il centrista Bayrou ha votato con i deputati socialisti…) testimonia del tentativo di rincorrere, più che guidare, lo stato di malessere sociale che attraversa il Paese.
Infine le varie sigle sindacali, nonostante la prova muscolare di piazza, navigano in realtà in acque ancora più stagnanti, dovendo fare i conti con un livello di sindacalizzazione oramai sceso sotto la soglia del 10% e con il flop di partecipazione alle recenti elezioni interne per le rappresentanze di fabbrica.
Ecco allora che il successo dello sciopero di giovedì 29 gennaio invita a riflettere sull’attuale stato di salute della democrazia francese. L’esplodere della crisi economico-finanziaria ha reso se possibile ancora più urgenti quelle riforme di sistema che Sarkozy ha presentato come prioritarie del suo quinquennato presidenziale. L’attuale necessità di riequilibrare il rapporto tra politica ed economia va nella direzione della sensibilità teorico-intellettuale del Presidente e del suo consigliere più ascoltato, Henri Guaino. Andando a sfidare il partito socialista e le parti sociali proprio sui temi delle riforme di società, l’attuale inquilino dell’Eliseo ha finito per occupare tutto lo spazio politico, assecondando ed incentivando la tradizionale opposizione francese per i corpi intermedi. Ora però Sarkozy si trova ad un bivio: avanzare, mettendo nel conto la possibilità e i rischi di un’esplosione di malcontento e ribellismo sociale, oppure inserirsi nel solco dei suoi più illustri predecessori, accontentandosi della pura gestione dello status quo?