Sarkò spiega come si possa ancora dirsi liberali

Banner Occidentale
Banner Occidentale
Dona oggi

Fai una donazione!

Gli articoli dell’Occidentale sono liberi perché vogliamo che li leggano tante persone. Ma scriverli, verificarli e pubblicarli ha un costo. Se hai a cuore un’informazione approfondita e accurata puoi darci una mano facendo una libera donazione da sostenitore online. Più saranno le donazioni verso l’Occidentale, più reportage e commenti potremo pubblicare.

Sarkò spiega come si possa ancora dirsi liberali

02 Febbraio 2007

L’intervista di Nicolas Sarkozy pubblicata sul Giornale
fornisce lo spunto ideale per una riflessione sullo stato dell’arte del
pensiero politico di destra. Utilizzo ancora la categoria “destra”,
sapendo che essa è parziale come qualsiasi categoria analitica e
descrittiva, e purtuttavia non così sostituibile come da più parti si
sostiene. D’altra parte, vi è anche la necessità politica di far
rientrare in circolazione questa categoria ora che essa sta riscuotendo
significativi successi e incassando riconoscimenti anche da personaggi
non contigui ad essa, come Glucksmann. Il nume tutelare dei “nouveaux
philosophes” ha infatti dichiarato pubblicamente, in un articolo
pubblicato sul quotidiano di sinistra Le Monde, di stare
dalla parte di Sarkò, e per una serie di ottime ragioni, tutte
ascrivibili alla sua storia di antico uomo della Gauche. Si licet
parva…

Ma vi è molto di più in Sarkò, oltre alla sua capacità di
incantare e attrarre filosofi di sinistra e operai, vi è qualcosa che
francamente a stento si rileva nella destra nostrana: un pensiero
politico. Questo è il punto oggettivo e il taglio specifico della
“classicità” postmoderna di Sarkò. Egli afferma, in un medesimo spazio
analitico, concetti distanti e, in chiave novecentesca, addirittura
opposti, come l’eguaglianza (delle opportunità) e la libertà di
intrapresa e addirittura di arricchirsi con il proprio talento, creando
così una novità che non è in alcun modo soltanto mediatica, ma ricalca
la struttura stessa della realtà contemporanea. Non sfuggirà agli
osservatori più attenti della realtà sociale e antropologica
contemporanea che l’alba del XXI° secolo ha già determinato la fine di
un blocco sociale fino ad ora dominante: il ceto medio. Le classi medie
sono in balìa della globalizzazione e ciò per due ragioni: da un lato,
a causa di uno spostamento per così dire assiale dei mercati, anche
interni, che ha causato una difficoltà per le piccole e medie imprese
di operare esportando e per i lavoratori specializzati di recuperare
spazio in un mercato determinato dall’outsorcing a basso costo;
dall’altro, in ragione di una ridotta crescita del comparto economico
europeo a fronte di un innalzamento del costo della vita e di un
progressivo logoramento del potere di acquisto dell’euro. Tremonti
fotografa bene la realtà europea ed assegna al “mercatismo” ideologico
il ruolo di destrutturazione culturale e anche politica che non
possiamo non ascrivergli, rimane ancora da analizzare con cura il nesso
tra il debito pubblico e il ruolo delle banche nazionali, ma questo è
un argomento che vale la pena affrontare in maniera compiuta ed
articolata. Un dato di fatto emerge con chiarezza: le classi medie,
quel grosso ventre, che taluni un po’ maliziosamente definiscono
“molle”, capace di occupare due terzi delle quote sociali del reddito
di un paese, è oggi in profonda crisi. Una crisi strutturale e, se
l’aggettivo non fosse più che abusato, si dovrebbe dire epocale. Le
classi medie sono oggi distanti dalla politica e dai politici, non
percependo più la rappresentanza istituzionale come una risorsa per
contenere i conflitti sociali e men che meno la possibilità di
integrare le istanze dei propri interessi economici. Esiste uno iato
tra la tecnostruttura politica e la base sociale della società; le
classi medie rispecchiano questo iato, in una pauperizzazione
crescente.

A tutto ciò si aggiunga la poderosa leva fiscale, che
accelera la crisi sociale e scaraventa in basso le prospettive di
avanzamento e mobilità sociali a cui legittimamente aspirano coloro
che, negli anni novanta, avevano fatto passi significativi in avanti
con la new economy e con un certo tipo di esportazioni, di tecnologia e
mercati di lusso. Ma anche gli operai specializzati di ieri, i leaders
dell’economia cognitiva, hanno subito contraccolpi di rilievo e oggi
non trovano più terreno per recuperare. Ebbene, in questo quadro, che
accomuna, seppur non perfettamente, la Francia e l’Italia, troviamo la
destra francese, con Sarkozy, impegnata in uno sforzo anche concettuale
e di implementazione politica di alto livello, con al centro un’idea di
nazione e di sviluppo, ma anche, in guisa complementare, una certa idea
di tradizione, di modernità e di civiltà. Il nesso con la tradizione
cristiana, in Sarkò, è laidamente ricompresso nello stadio dello
sviluppo di una mentalità proattiva e compiutamente responsabile,
facendo leva sui soggetti produttivi e sulle loro ambizioni. Il tutto
in una chiave di virtù civiche e doveri civili, che riecheggiano, in
modalità originale, le suggestioni della Weil e le tracce teoriche di
un grande pensatore come Lasch. Un passaggio dell’intervista citata di
Sarkozy rende bene l’idea. Sottolinea Sarkò: “Io sono liberale, ma
rifiuto la caricatura del liberalismo. Ho detto che il capitalismo deve
rispettare un’etica. Su questo non transigo. Che i dirigenti d’azienda
abbiano stipendi alti è normale, è la contropartita del rischio. Ma non
accetto i “paracaduti d’oro”. Credo che il lavoro crei il lavoro.

Voglio autorizzare la gente ad affrancarsi dalle 35 ore, a cumulare
pensioni e lavoro part time. Voglio che i patrimoni siano investiti in
Francia, voglio che si sviluppi il capitalismo familiare, per esempio
defiscalizzando l’imposta di redistribuzione dei redditi per quanti
investono nelle piccole imprese. Tutto questo non è liberale?”. Lo è
certamente e non si limita a strutturare una società al limite appunto
della caricatura, inventando una globalizzazione capace di ridare fiato
ai mercati nazionali, perché questa è una storia finita. Tuttavia, il
respiro politico di questo pensiero liberale e insieme comunitario
verte sul nesso tra il merito individuale e la responsabilità civica e
civile. E il merito deve valere anche e soprattutto per le élites, che
non possono guadagnare emolumenti stratosferici indipendentemente dai
meriti e dalla produttività reale, come è accaduto a Cimoli, in maniera
a dir poco scandalosa. Chi fallisce o è mediocre, deve avere
riconoscimenti a questo livello, non stanziare riserve auree di
riconoscimenti che gli valgono infine pensioni e prebende superiori
alle reali capacità. La società che permette alle sue élites di
acquisire il riconoscimento e la stima del popolo è una società sana e
liberale. Coloro che poi non sono ancora in alto e non hanno ancora
redditi elevati devono avere la possibilità di poter migliorare la loro
condizione sociale ed economica puntando sulle qualità riconosciute e
favorite dai meccanismi del mercato e dalle leggi della società. Ecco,
così si costruisce un pensiero e una visione liberale e di destra, con
il mercato e i meriti, da un lato, e i doveri e l’autorevolezza delle
élites, dall’altro. Soggiace alla riflessione di Sarkozy, come anche
alla sua azione politica, l’idea che, dopo il ventesimo secolo, anche
il liberalismo non possa più essere concepito come una fictio
ideologica e/o economica, ma che debba essere reincorporato nell’alveo
dei bisogni, degli interessi e dei meriti dei cittadini. Un ceto
pensiero imperfettamente definito “comunitarista” sostiene che l’idea
della complementarietà tra i diritti individuali e i doveri comunitari
sia il cemento della società e che, con questo amalgama, si compia
addirittura la riforma sostanziale del liberalismo. Sia come sia, una
cosa è certa: la destra che Sarkò interpreta brillantemente non è né
meramente sincretista né incompiutamente “terzista”, è piuttosto
culturalmente popolare e metodologicamente populista. Se anche in
Italia si provasse, anche da destra, a evitare di demonizzare il
populismo e, in positivo, a rischiare di più sull’elaborazione teorica
non accademica, ma implementabile, in vista della costruzione di un
vero pensiero politico, forse recupereremmo percentuali di sondaggi non
solo sul presente, ma anche sul futuro.