Sarkozy su Obama ha molti dubbi soprattutto quando parla dell’Iran
31 Ottobre 2008
25 luglio 2008, cortile dell’Eliseo. Nicolas Sarkozy accoglie con simpatia il candidato democratico alla Casa Bianca Barack Obama impegnato nel suo tour elettorale in Europa e Medio Oriente e afferma: “Obama c’est mon copain”! 28 ottobre 2008, tre mesi dopo e, a una settimana dall’attesissima elezione, in un convegno a porte chiuse il presidente francese dichiara (o perlomeno questo il resoconto del quotidiano israeliano Haaretz): “Le posizioni di Obama sull’Iran sono completamente immature. Egli formula ipotesi prive di reale contenuto”. Quindi Nicolas Sarkozy in tre mesi ha cambiato radicalmente opinione sul probabile (attenzione ai sondaggi, Al Gore e John Kerry insegnano…) nuovo inquilino della Casa Bianca? O forse l’iper-presidente francese, più che per il suo proverbiale pragmatismo, si è distinto questa volta per una forte dose di ambiguità? La realtà dei fatti è più sfumata e, anche se può apparire paradossale, sia l’affermazione di fine luglio che quella di fine ottobre, celano una parte di verità.
Sarkozy non può che mostrare un approccio benevolo nei confronti di Obama perché sul riavvicinamento francese agli Usa ha investito tutto il capitale di politica estera del suo quinquennato. Più ancora che sui temi del lavoro, su quelli dell’immigrazione o sullo scontro ideologico rispetto al gauchisme post-sessantottino, Sarkozy ha operato una profonda cesura all’interno della tradizione di politica estera della Quinta Repubblica gollista. A partire dal grande discorso agli ambasciatori di fine agosto 2007, Sarkozy ha mostrato che un’epoca fatta di eccezionalismo negativo francese nel rapporto con gli Stati Uniti (e di conseguenza con Israele) si è definitivamente conclusa. I gesti successivi, culminati con il reintegro di Parigi nel comando Nato, sono stati solo una logica conseguenza di questa nuova “dottrina Sarkozy”. Ebbene questa rottura, che non pochi traumi sta provocando a sinistra, ma soprattutto, a destra nei nostalgici del gollismo della prima ora, è più accettabile se Sarkozy si trova a costruire il nuovo rapporto con una Washington guidata da Barack Obama, piuttosto che dal successore repubblicano di G.W. Bush.
Sarkozy, consapevole dei rischi che la sua condotta di politica estera comporta, sa di doversi confrontare con un’opinione pubblica francese pronta a plebiscitare il candidato afro-americano. L’ultimo sondaggio parla del 78% di livello di gradimento. L’Obama-mania ha contagiato il Paese, come non è accaduto in nessun altro Stato europeo e quest’euforia ha travolto anche la stampa quotidiana e periodica che insiste sulle virtù del candidato democratico e arriva addirittura a parlare di un futuro e quasi certo asse Obama-Sarkozy per risolvere l’attuale crisi economico-finanziaria. Inoltre, a proposito della complicata congiuntura e in vista del vertice del 15 novembre a Washington, l’elezione di un democratico dovrebbe, almeno in teoria, rendere più disponibili gli Usa a procedere nella rifondazione del sistema finanziario internazionale partendo dalla strutturazione di una nuova Bretton Woods.
Ma se la situazione è quella delineata, per quale motivo le affermazioni di Sarkozy a proposito della presa di posizione del candidato Obama sull’Iran? Essenzialmente perché se Obama è sinonimo di “novità”, lo è altrettanto di “incognite”. E le meteore, nelle questioni geostrategiche, preoccupano. Non sono pochi i timori che stanno cominciando a serpeggiare nelle stanze della diplomazia dei principali Paesi europei, anche perché un dato è difficile da negare: Obama non ha espresso una sua chiara posizione sull’Europa. Anche il tour delle capitali (Berlino Parigi e Londra) di fine luglio è apparso più una grande operazione di marketing politico (culminata nell’accostamento antistorico tra il discorso berlinese di Kennedy del 1963 e quello di Obama) che un reale tentativo di gettare le basi per il futuro rapporto euroatlantico. Nessuna parola è stata ad esempio spesa nel corso della lunga campagna elettorale sulla difesa comune europea, che sempre nell’ottica di Sarkozy dovrebbe essere “la merce di scambio” per il ritorno francese a pieno titolo nell’Alleanza Atlantica.
Nei casi poi in cui Obama ha parlato, ha finito per impensierire ancora di più i leader europei. Se sull’economia in linea teorica egli dovrebbe essere disponibile alla creazione di un nuovo sistema finanziario da negoziare con l’Ue e i Paesi emergenti, molto meno conciliante appare la sua posizione sul commercio estero, con prese di posizione abbastanza nette sul primato nazionale americano e sul conseguente protezionismo sia nei riguardi dell’area euro che di quelli dell’area Nafta.
Infine sull’Iran le dichiarazioni di Obama sono parse a dir poco ardite, arrivando a fare propria la massima di Kennedy (“mai negoziare per paura, ma non avere mai paura di negoziare”) e parlando così di apertura di colloqui con Teheran anche “senza precondizioni”. Una decisione di questo genere significherebbe inaugurare una politica unipolare, in netta discontinuità rispetto all’approccio multipolare fino ad oggi scelto dal 5+1 (Usa, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia e Germania).
Ecco dunque spiegata l’irritazione di Sarkozy e il suo giudizio (più che plausibile anche se naturalmente non confermato dall’Eliseo) sul candidato democratico alla Casa Bianca rispetto alla gestione del dossier iraniano. In conclusione, qualunque sarà il risultato, il 5 novembre segnerà una svolta decisiva nelle relazioni euro-americane. Inutile speculare su un Atlantico più o meno largo. Forse è meglio riflettere su un Atlantico “meno scontato”. Archiviata