Sarkozy voleva fare l’americano ma l’identità francese non si tocca

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Sarkozy voleva fare l’americano ma l’identità francese non si tocca

19 Aprile 2009

Chi è Nicolas Sarkozy? Un immigrato ungherese in partenza per gli Stati Uniti che ha appoggiato le valigie in Francia! Questa frase ad effetto pronunciata da Jerome Monod, a lungo consigliere politico di Jacques Chirac, ben riassume la tesi di fondo dell’acuto pamphlet che Jean-Marie Colombani ha pubblicato circa un anno dopo l’ingresso all’Eliseo di Sarkozy. Nel suo Un americano a Parigi (oggi disponibile in italiano per le edizioni Rizzoli) l’ex direttore di «Le Monde» coglie nel segno e la validità della sua analisi risulta ulteriormente avallata dal fatto che il libro non ha perso per nulla la sua attualità pur essendo uscito in versione francese dodici mesi fa.

È oramai ogni giorno più evidente: Sarkozy è concepito dalla maggioranza dell’opinione pubblica (sia essa colta o popolare) come un vero proprio corpo estraneo, qualcuno che, prima ancora di non riuscire a risolvere i problemi del Paese, cerca di stravolgerne i principi identitari. Sarkozy cultore del merito, dell’arricchimento individualista e della riforma della centralità dello Stato è stato progressivamente percepito come un vulnus rispetto all’edificio repubblicano tradizionale fondato sul centralismo, sull’egualitarismo e sulla laicità assoluta. L’interessante analisi di Colombani si sofferma sul dato più profondo ma per certi aspetti più trascurato del progetto sarkozysta: aver lanciato una sorta di «Opa» nei confronti dell’ideologia repubblicana francese, quella che deriva in linea diretta dalla rivoluzione del 1789, passa attraverso il primo e il secondo impero, si consolida nel corso della III Repubblica, per poi incarnarsi nel consenso gollista-mitterrandiano della Quinta. Insomma il «peccato originale» di Sarkozy sembra proprio quello di aver proposto una «nuova ideologia repubblicana» fondata sulla crescita, sul successo individuale e finalizzata all’arricchimento personale: una sorta di «americanizzazione» del contesto francese.

L’analisi di Colombani, prima ancora di essere critica nei confronti dell’attuale inquilino dell’Eliseo, lo è nei confronti del proprio Paese. L’ex direttore di «Le Monde» è spietato innanzitutto nel denunciare il conservatorismo che domina la Francia e si estrinseca in una difesa strenua sia del modello istituzionale dellaQuinta Repubblica che dell’ancor più profondo modello statale giacobino. Il grave errore commesso da Sarkozy è quello di aver pensato di poter intaccare queste due roccaforti. I francesi adorano il sistema semipresidenziale in quanto riproposizione del sistema consolare con l’aggiunta dell’illusione popolare incarnata nel meccanismo perpetrato della fiducia parlamentare. La riforma istituzionale voluta da Sarkozy si è mossa proprio nel tentativo (solo in parte riuscito) di sciogliere questa ambiguità, quel sistema ibrido né compiutamente presidenziale né completamente parlamentare. La riforma, che ha sfruttato le analisi della Commissione Balladur, ha spinto verso il sistema presidenziale, di conseguenza dotando il Parlamento di reali poteri (come il Congresso americano) e cercando di svuotare di significato la figura del Primo ministro, oggi al contrario difeso come simbolo della permanenza di un regime parlamentare. I francesi però continuano a preferire il modello classico composto dal Presidente-monarca e dal Primo ministro parafulmine, che compie il «lavoro sporco» e contemporaneamente illude i cittadini, dando la sensazione di mantenerli all’interno di un sistema dove l’ultima parola spetta al Parlamento.

Rispetto poi alla riforma del centralismo giacobino l’errore di Sarkozy è stato, potremmo dire, di sottovalutazione ideologica. Gli sarebbe bastato sfogliare quello che è oramai un classico della storia politica francese, Le modèle politique français di Pierre Rosanvallon per comprendere a che livello è storicamente giunto l’odio francese per i corpi intermedi e magari rendersi conto che la famiglia politica dalla quale proviene, quella gollista, da questo punto di vista è assolutamente in linea con l’evoluzione tradizionale del Paese negli ultimi due secoli.

Colombani è poi altrettanto convincente quando applica la sua analisi agli specifici errori di Sarkozy, che in parte prescindono dalla peculiarità del caso francese e potrebbero essere applicati a molti altri odierni leader politici.

Sarkozy ha innanzitutto espresso scarsa coerenza nelle sue scelte di governo, mostrando di non avere un quadro chiaro delle priorità e di conseguenza un’univoca «narrazione» del suo progetto di riforme da proporre all’opinione pubblica. Puntando tutto su un eccesso di comunicazione politica (il suo modello da questo punto di vista rimane la coppia Campbell-Blair) egli ha finito per invadere tutto lo spazio a disposizione con una serie impressionante di cantieri di riforma, non riuscendo però a sensibilizzare a sufficienza i cittadini su un paio di grandi questioni e di conseguenza disperdendo energie in mille rivoli e incontrando una molteplicità di opposizioni settoriali e categoriali.

L’inquilino dell’Eliseo ha poi dovuto fare i conti con un imprevisto ancora più tipico per il politico moderno. Egli si è presentato al voto di aprile-maggio 2007 con il profilo di candidato preparatissimo, autorevole e con un programma ambizioso. Una parte consistente dell’elettorato centrista o socialista era disposto a definire Sarkozy, senza dubbio, il più «presidenziabile» dei candidati. Una volta eletto, in brevissimo tempo, il quadro al quale egli voleva applicare la sua riforma anti-statalista e liberale è profondamente mutato e Sarkozy si è ben presto reso conto che la sua rupture necessitava di un aggiornamento complessivo. Mano a mano che la crisi economica ha mostrato il suo vero volto negli ambienti presidenziali non solo ci si è resi conto che il «Presidente del potere d’acquisto» rischiava di scontentare i suoi elettori, ma che anche le ricette tese a sciogliere almeno una parte dei lacci che soffocano il modello economico-sociale transalpino erano oramai improponibili. «Sarkozy ha elaborato il suo programma in un momento in cui il contesto sembrava propizio a una nuova cura di liberalismo, giustificata da una triade di critiche sempre popolare a destra: troppo debito, troppa spesa pubblica e in particolare, troppa spesa sociale. Ma tra l’elaborazione di questo programma e la sua elezione, la situazione internazionale si è mossa in senso opposto» (p. 121). In un certo senso a Sarkozy è stato chiesto, ad un certo punto, di farsi simile a Chirac, di mettere in soffitta qualsiasi desiderio di rottura, di rinunciare a contrapporre liberalismo ed egualitarismo, facendo propria la massima coniata da Charles Pasqua, attraverso la quale si può ben descrivere la pratica di governo di Chirac: «le promesse impegnano solo chi le ascolta!».

Un terzo ed ultimo errore di Sarkozy è quello di non essersi ancora rassegnato a non dire quello che pensa: è un Presidente che spera di poter continuare a parlare di quel che gli interessa. Da questo punto di vista emblematico è stato il caso del discorso sulla centralità della religione cristiana nello spazio politico occidentale pronunciato nel dicembre del 2007 a San Giovanni in Laterano a Roma. La domanda che Sarkozy si è posto per arrivare a coniare il suo concetto di «laicità positiva» è in realtà semplice quanto eversiva per il contesto francese post 1905: in cosa, il fatto di sperare, è incompatibile con l’ideale repubblicano? Ma l’inquilino dell’Eliseo era consapevole di parlare alla Francia o pensava forse di parlare ai cittadini oltre Atlantico? Il concetto di religione, e in particolare di religione cristiana, come fondamento decisivo alla base dell’evoluzione della comunità repubblicana è senza dubbio un concetto statunitense, alquanto inadeguato per quello europeo e in particolare per quello transalpino.

In definitiva accanto all’errore ontologico al quale si faceva riferimento in apertura, Sarkozy sembra aver commesso un azzardo a livello di metodo. Egli ha cercato di applicare un mix di sincerità strategica e di attivismo permanente che si potrebbe esemplificare nel binomio «azione-risultato», che mal si sposa con il ruolo di «monarca repubblicano», così caro alla tradizione cinquantennale della Quinta Repubblica. A partire dalla metà del 2008 il Presidente sembra aver compreso che, se aspira ad una rielezione nel 2012, il suo approccio deve necessariamente farsi meno «eversivo». Ma la forza dell’iper-Presidente non era proprio incarnata da questa sua étrangeté rispetto al modello francese? Nel suo desiderio di «sconsacrare, rimodernare e, perché no, americanizzare?» (p. 61).

Colombani non ha dubbi: «comunque andrà a finire, tutto fa pensare che ci sarà un prima e un dopo Sarkozy, nella concezione presidenziale e nel suo modo di fare. È oramai impossibile pensare di tornare ai tempi sclerotizzati di Chirac o a quelli ieratici di un Mitterrand» (p. 61). Se così dovesse essere, rieletto o meno nel 2012, per Sarkozy resterà un posto d’onore nel pantheon dei Presidenti francesi. A quel punto, l’immigrato ungherese fattosi Presidente a Parigi potrà anche prendere la sua valigia e andare a trascorrere la sua vecchiaia da qualche altra parte al di là dell’Atlantico!