Scalfari  preferisce il “tempo perduto” alla politica che modernizza il paese

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Scalfari preferisce il “tempo perduto” alla politica che modernizza il paese

16 Febbraio 2010

Eugenio Scalfari su “Repubblica” ha posto dieci domande a Guido Bertolaso. Esse, secondo il costume collaudato di questo decano del giornalismo d’opinione, che parla più spesso con Dio che con noi, hanno lo scopo precipuo di fare insinuazioni a carico della persona inquisita e a carico di Silvio Berlusconi. E poiché Bertolaso ha subito risposto, il decano del giornalismo, che un tempo, di sera andava in Via Veneto a discutere con gli “amici de Il Mondo” e con Guido Carli, e la notte dormiva tenendo Proust sotto il cuscino, gli ha altrettanto celermente replicato, traendo dallo scaffale gli avvisi di garanzia. Perché più che via Veneto, gli è cara Via San Vitale, sede della questura di Roma, mentre Antonio di Pietro preferisce l’invito a cena, presso la Caserma dei carabinieri del comando di Milano.

Se Bertolaso, la cui carriera nella protezione civile è iniziata con il primo governo Prodi, fosse rimasto incollato a Prodi e al centrosinistra e non fosse diventato uno stretto collaboratore di Silvio Berlusconi, le domande e le repliche di Scalfari alle sue risposte sarebbero state piene di finezza proustiana. Ma in questo caso il frasario usato è diverso. Non è quello del caffè Rosati, ma quello di San Vitale. In particolare lo è il frasario della replica finale scalfariana a Bertolaso (apostrofato agli inizi con l’espressione “Egregio sottosegretario”, col finto ossequio con cui il poliziotto inizia l’interrogatorio). La frase di Scalfari suona così “ “ E nostro dovere raccontare chi c’è in mezzo a quel fango e che cosa ha fatto per esserne lordato”. Per togliere ogni dubbio che la delicata frase si riferisca proprio a Bertolaso, il decano del giornalismo,  aggiunge: “Spero vivamente che lei non sia fra quegli infangati, ma si tratta purtroppo di suoi intimi amici”. Quel “purtroppo”, naturalmente, sottintende un “per lei”. E suona come un auspicio al tintinnio di manette. Quelle che sono toccate, per l’appunto, ai collaboratori del sottosegretario, di recente arrestati, che nel testo scalfariano vengono qualificati, in modo improprio, quali “amici” per di più “intimi”. Ma devo dire che a parte il gusto, così poco proustiano, di infangare l’interlocutore, che ha risposto cortesemente alle sue domande, mi è parso che sotto la parvenza di liberale pannunziano doc, il direttore di Repubblica riveli il suo dirigismo originario. Infatti, tutto il suo questionario a Bertolaso è una apologia della burocrazia di stato, che mira alle forme e non alla sostanza, che si bea delle carte e non si preoccupa del risultato.

I personaggi come Scalfari, nonostante i tanti anni passati a scrivere sui giornali, essendo per natura adoratori del dirigismo burocratico non si rendono conto che una delle principali ragioni per cui l’Italia cresce troppo poco e troppo lentamente è il macchinoso insieme di procedure che caratterizzano la legislazione e gestione delle opere pubbliche e delle infrastrutture. E quindi non riescono ad apprezzare la semplice frase con cui Bertolaso ha risposto in modo egregio a tutte e dieci le domande a lui poste. Domande che si riferiscono al perché di una legge che scorpora dalla protezione civile le attività operative di cui si avvale affidandole a una società per azioni gestita managerialmente.

Bertolaso ha detto che la “variabile tempo è un valore cogente”. Una risposta che vale non solo per le calamità naturali, ma anche per altri interventi come i vertici del G8 o i cantieri previsti per le iniziative riguardanti la celebrazione del centenario dell’Unità di Italia. Di cui molto si discute, ma che sono ancora in alto mare. E che ora, immagino, saranno bloccate, perché sarà stralciato della discussione della Camera dei deputati il disegno di legge con cui esse potevano essere realizzate in modo tempestivo. Mentre le opere per le Olimpiadi invernali di Torino, come la nuova stazione ferroviaria di Porta Susa, non sono ancor compiute adesso, che ci sono oramai le nuove olimpiadi invernali di Vancouver.

Secondo uno studio del 2008 del Ministero delle infrastrutture, che ha esaminato14 mila progetti, per realizzare un’opera pubblica di valore superiore ai 50 milioni di euro, cifra modesta.(un km di autostrada costa circa 15-17 milioni di euro ) in Italia ci vogliono mediamente 3.942 giorni, vale a dire quasi 11 anni. Per la progettazione se ne vanno in media 1.204 giorni e per l’appalto (gara e aggiudicazione) 365 giorni.Per realizzare materialmente l’opera ci vogliono 2.372 giorni, sei anni e mezzo. Per le opere fra 10 e 50 milioni di euro ci vogliono 7 anni e tre mesi. Per quelle fra 5 e 10 milioni (il costo di 5 o 10 case popolari) mediamente occorrono 4 anni e mezzo. Inoltre, per quasi tutte le opere considerate è emerso un sistematico sforamento delle previsioni temporali iniziali, in media del 30-40%. Questo studio riguardava opere nei trasporti, in particolare tratti di ferrovie, strade ed autostrade: fra cui alcuni lotti della autostrada Salerno Reggio Calabria, che è perennemente in rifacimento e perciò perennemente caratterizzata da tratti a una sola corsia.

Ma le cose non vanno meglio per le altre opere, in particolare quelle nelle città, che coinvolgono lavori edilizi ed urbanistici. Ad esempio, si è effettuato un esame delle opere che hanno come progettisti importanti studi di architettura internazionali. Cito, fra queste opere, quelle affidate allo studio britannico di David Chipperfield. Nel 1998 questo importante studio di architettura e ingegneria, che opera in vari paesi del mondo, ha vinto la gara per l’ampliamento del cimitero di Venezia. Dopo nove anni, a causa delle lungaggini, ha potuto inaugurare solo il primo pezzo del primo lotto, un’opera da 5 milioni di euro sui 25 complessivi. Nel frattempo, le sepolture possono attendere. Eugenio Scalari potrebbe argomentare, giustamente, che non si tratta di una “emergenza”, nel senso di una imprevedibile calamità naturale, perché il bisogno di un ampliamento del cimitero è prevedibile, è programmabile. Ma sta di fatto che il piano ha impiegato nove anni per decollare.

A Salerno nel 1999 lo studio Chipperfield si è aggiudicato il concorso per la cittadella della giustizia: i lavori non sono ancora completati dopo dieci anni. Tralascio di indicare gli anni persi in precedenza per decidere di costruire questa cittadella della giustizia, perché mi premere aggiungere un particolare importante. Si tratta del fatto che questa era la seconda gara, perché la prima è stata vinta svariati anni prima, con un ribasso eccessivo da una impresa che, dopo aver impiegato un po’ di tempo per effettuare la prima parte dei lavori, si è poi fermata, in quanto è fallita, perché aveva accettato un prezzo anti economico, nella gara al ribasso, e quindi non era riuscita stare nel preventivo. Così il comune di Salerno ha ricominciato da capo e le spese sono aumentate e ora il Ministro Alfano ha dovuto stanziare un supplemento di fondi, affinché la cittadella della giustizia possa essere portata finalmente a termine. I famosi 11 anni, come si nota, in questo caso, sono stati ampiamente superati. Ma l’impresa che ha abbandonato il campo aveva vinto una gara regolare, con tanto di nastri, fiocchi e contro fiocchi. Tutto in ordine, peccato che con queste regole in busta chiusa, che si prestano a mille artifici, non si possa scegliere l’impresa più efficiente, in grado di operare tenendo conto “variabile tempo”. Nel 2000 a Milano la ditta inglese di architettura che sto citando, ha vinto il concorso per la riqualificazione dell’area ex Ansaldo, solo nel 2007 è stata indetta la gara d’appalto per i lavori del primo lotto. Sono passati sette anni, prima dell’inizio dei lavori.

Quando Eugenio Scalfari, lettore di Proust, alla ricerca del “tempo perduto” afferma, in replica a Bertolaso che per i “grandi eventi” non c’è bisogno di procedure semplificate, perché essi possono essere approvati svariato tempo prima che le loro opere siano attuate sembra ignorare quanto “tempo perduto” passa, con l’attuale sistema, fra le delibere, i progetti, le gare, prima delle attività operative.

A Verona,ci sono voluti sette anni per fare un preliminare per la riqualificazione dell’area dell’ex Arsenale. Secondo i dati di questa società di progettazione che lavora anche nel resto di Europa e negli Usa, i tempi europei sono di media la metà di quelli italiani e un terzo di quelli degli Usa. Il metodo italiano ordinario, come si vede dagli esempi fatti, è particolarmente lento in quanto vi vogliono molti anni per la progettazione e per l’affidamento dei lavori. Se si fosse applicato questo metodo, anziché il modello Bertolaso, i terremotati de L’Aquila sarebbero ancora nelle tendopoli e baraccopoli per parecchi anni. E la spazzatura si ammucchierebbe ancora nelle strade di Napoli.

Quando l’attuazione delle opere si prolunga, i costi salgono, perché aumentano i prezzi e perché nel costo rientrano anche gli interessi composti dal momento in cui si pagano i lavori a quello in cui l’opera è completata e comincia a rendere. Gli avversari “della politica del fare” di Berlusconi si sono scatenati prima contro la legge obiettivo che doveva servire ad accelerare le grandi opere e ci hanno messo ogni sorta di paletto fra gli ingranaggi, ritardando le grandi infrastrutture, poi si sono opposti al piano casa e sono riusciti a impantanarlo nelle burocrazie delle Regioni, in cui si è perso. Ed ora si sono mobilitati contro la legge sulla società per azioni per la protezione civile, che vorrebbe fare tesoro delle esperienze positive fatte con gli interventi rapidi a Napoli e in Abruzzo. Dai no global, ai no Tav, alla strategia mediatica basata sui processi, con contorno di intercettazioni telefoniche, lo scopo è sempre lo stesso: impedire che si modernizzi. Chi fa queste campagne, torni pure al caffè Rosati a chiacchierare e, se non riesce a dormire, legga, anzi rilegga (gli intellettuali “rileggono”) la “Ricerca del tempo perduto” di Proust, ma non si lamenti per la bassa crescita dell’economia italiana, impantanata nel fango della burocrazia.