Sconcertante storia del concorso esterno in associazione mafiosa

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Sconcertante storia del concorso esterno in associazione mafiosa

30 Novembre 2009

“Se gli associati scorrono in armi le campagne o le pubbliche vie, si applica la reclusione da cinque a quindici anni”: con questo lessico da romanzo di cappa e spada, il quarto capoverso dell’articolo 416 del Codice Penale introdusse in Italia –unico paese al mondo, o quasi- il reato associativo. Lo stile aulico ha una interessante ragion d’essere: il reato associativo venne infatti introdotto nel Codice Penale sabaudo per uno scopo essenziale: arrestare migliaia di contadini meridionali che si sospettava, ma non si poteva provare, fossero complici dei “briganti”. Il reato associativo nacque dunque in Italia nel pieno di una guerra civile e ebbe una funzione essenzialmente militare: servì infatti ad affiancare con vere e proprie razzie, un iniziativa armata contro i “briganti” che stentava ad imporsi.

Una genesi più che significativa, perché tutta la storia dell’evoluzione dei reati associativi (siamo al 416 ter), si colloca in un contesto simile: si ricorre al reato associativo –che configge con le garanzie del cittadino- per contrastare pericolosissime emergenze nazionali, conflitti sociali, contrasto di organizzazioni camorristiche o mafiose, non riescono ad essere vinti con le armi della politica, congiunte a quelle di un apparato investigativo e giudiziario, che sappia portare al processo prove e riscontri obbiettivi di responsabilità personali. Nel 1930, col Codice Rocco, il fascismo, introdusse poi l’articolo 270, in cui il reato di “associazione sovversiva” faceva riferimento a alla messa fuori legge dei partiti comunisti, socialisti e del movimento anarchico, disciolti con la legge 2008 nel 1926. Un articolo enucleato in termini, di nuovo, molto indicativi: “Chiunque nel territorio dello Stato promuove, costituisce, organizza o dirige associazioni dirette a stabilire violentemente la dittatura di una classe sociale sulle altre, ovvero a sopprimere violentemente una classe sociale o, comunque, a sovvertire violentemente gli ordinamenti economico o sociali costituiti nello Stato, è punito con la reclusione da cinque a dodici anni”.

La dinamica emergenziale, il fiancheggiamento di iniziative repressive di tipo più militare che poliziesco, la riduzione esplicita dei diritti del cittadino a vedersi contestata e provata la partecipazione o la complicità ad un reato specifico, segnarono sempre più l’evoluzione successiva dei reati associativi (siamo all’articolo 270 sexties). Reati in cui basta sia provata la partecipazione all’associazione –senza che l’accusa debba fornire prova o riscontro di partecipazione ad un singolo fatto delittuoso- per determinare condanne spesso superiori a quelle per omicidio (non di rado, l’ergastolo).
Nel 1982, con la legge denominata La Torre si attualizzò la legislazione contro le organizzazioni mafiose e camorristiche -416 bis- che verrà poi modificata ed arricchita di specifiche. Ma è con il Maxi Processo impostato –e vinto- da Giovanni Falcone, che si impose –contro la volontà dello stesso Falcone- il salto di qualità e si introdusse nelle giurisprudenza, mai nel Codice, solo nella giurisprudenza, il reato di “concorso esterno in associazione mafiosa” che non è tuttora e per nulla normato, definito, scritto. Falcone, si badi bene, contestò in tribunale questo reato mai da solo, ma solo come corollario ad altre e circostanziate e provate e specifiche contestazioni di reati specifici. Ma, dal 1992 in poi, la rarefazione dalla cultura giuridica della prova, della definizione specifica del reato contestato diventa assoluta, impalpabile, a disposizione della volontà incontrollata del singolo magistrato, della singola Corte.

La Cassazione si è più volte occupata del tema, con una serie di sentenze controverse, infine introducendolo formalmente nella giurisprudenza con la sentenza delle Sezioni Unite sul caso Demitry del 1994, salvo poi essere in parte smentita da una sentenza delle sezioni unite, presidente Carnevale, poi corretta da una recente sentenza di avallo, presidente Marvulli.
In questo lungo percorso storico, dunque, il reato associativo partì dai bifolchi lealisti dei Borboni “che scorrono le campagne in arme” (e questa dizione è riportata ancora oggi), per crescere su sé stesso, di astrazione giuridica in astrazione, sino ad evidenziare la sua essenza: segnala la necessità politica di sospensione delle garanzie costituzionali quali oggi le intendiamo, a fronte di una emergenza che si ritiene metta in pericolo lo stesso ordinamento costituzionale. E non è un caso che si sia replicando –perfetto e indicativo contagio- nella costruzione giuridica che sottende alla impostazione data da George W, Bush a Guantanamo e alla sua procedura giudiziaria contro i terroristi di al Qaida. E’, insomma, un reato emergenziale, estraneo alla fisiologia di un ordinato ordinamento giudiziario, istituzionale, civile.

Fu proprio Giovanni Falcone a denunciare con lucidità la potenziale valenza esplosiva di processi impostati solo sulla contestazione di reati associativi nella sua intervista con Marcelle Padovani: “Non sembra che la legge La Torre (416 bis), studiata per perseguire specificamente il fenomeno mafioso e per porre rimedio alla mancanza di prove, dovuta alla limitata collaborazione dei cittadini e alla difficoltà intrinseca nei processi contro mafiosi di ottenere testimonianze, non sembra abbai apportato contributi decisivi nella lotta alla mafia. Anzi, vi è il pericolo che si privilegino discutibili strategie intese a valorizzare ai fini di una condanna, elementi sufficienti solo per aprire un’inchiesta”. Falcone fu lucidissimo e definitivo, anche nello smontare la teoria del “grande vecchio”, il burattino che dall’alto della sfera politica tira –in concorso esterno- le fila della mafia: “Non esiste ombra di prova o indizio che suffraghi l’ipotesi di un vertice segreto che si serve della mafia, trasformata in un semplice braccio armato di trame politiche. La realtà è più semplice e complessa nello stesso tempo. Si fosse trattato di simili personaggi fantomatici, di una Spectre all’italiana, li avremmo già messi fuori combattimento; dopotutto bastava un James Bond”.

(Il Foglio del 24 novembre)