Scorci di vita quotidiana nella Germania Est dei primati
08 Novembre 2009
La Germania dell’Est poteva vantare almeno un primato: quello di essere probabilmente il più avanzato e sofisticato Stato di sorveglianza di tutti i tempi. La Stasi (abbreviazione di Ministerium für Staatssicherheit, ministero per la sicurezza di Stato) era un vero e proprio stato nello Stato. Con 97.000 dipendenti – di cui almeno 14mila nella sola sede centrale berlinese – e 170.000 informatori (stipendiati) rappresentati da mariti, figli, vicini di casa e commessi, essa contava su un controllo pressoché totale della vita nella DDR. Facendo un calcolo sommario, ogni sessantatré cittadini vi era un collaboratore della temuta polizia segreta. Primato che ha fatto coniare ad Anna Funder la felice e al tempo stesso cupissima espressione di Stasiland, come si intitola un suo fortunato libro da noi poco efficacemente tradotto “C’era una volta la DDR” (Feltrinelli 2005), titolo destinato soprattutto a rievocare quella stessa ostalgie (nostalgia per la Germania dell’Est) al centro del divertente film “Good Bye Lenin!”, successo di qualche anno fa. È un altro successo cinematografico, “Le vite degli altri”, folgorante esordio registico di Florian Henckel von Donnersmarck che ha saputo raccontare la vita nella Germania orientale al tempo della Stasi. In quel caso, si trattava di vite fuori dall’ordinario, a cominciare dal fascinoso protagonista, giovane e fortunato scrittore per nulla ostile al regime ma arbitrariamente posto sotto il controllo della polizia segreta per volontà di un ministro innamorato della sua bella e tormentata compagna, di professione attrice.
Come nella migliore tradizione dei regimi dittatoriali, nessuno poteva realmente dirsi al sicuro dall’occhio vigile della Stasi: così come la maggior parte dei cittadini, anche gli stessi alti dirigenti del partito ne temevano la pervasiva efficienza, in grado di scandagliare ogni piccolo dettaglio della loro esistenza compromettendone talvolta definitivamente la carriera.
È stata Angela Merkel a ricordare in questi giorni che la DDR «era lo stato dell’ingiustizia». Per chi, come la Cancelliera, ha vissuto 35 anni nella Germania dell’Est prima della caduta del Muro, non pesava solo la potenza della Stasi: «non c’erano libere elezioni né libertà democratiche, né libertà di scelta, d’opinione e religiosa». Tuttavia, la vita quotidiana nella DDR poteva risultare ai suoi cittadini quasi del tutto normale: si aveva un salario garantito, sanità ed istruzione a disposizione di tutti e le vacanze alla volta delle spiagge baltiche o dei lidi bulgari e rumeni lungo le coste del Mar Nero erano esperienze tutt’altro che straordinarie. In molti casi, però, si trattava di una normalità fittizia: Alberto Indelicato, ultimo ambasciatore italiano presso la DDR, ha raccontato in “Compasso e martello” (Luni, 1999) come «i giornali non riportavano mai fatti di cronaca nera, anche se dalle pubblicazioni specializzate si poteva dedurre che le statistiche della criminalità erano comparabili a quelle di vari Paesi dell’Europa occidentale. La stampa pubblicava invece storie edificanti di delinquenti che, rendendosi conto del danno che con le loro azioni avevano arrecato alla società socialista, con il consiglio e l’assistenza degli organi del partito, del sindacato o di altre istituzioni, si pentivano e si riscattavano, dedicandosi alla costruzione del socialismo». Storie di ordinaria censura narrate anche ne “Le vite degli altri”: il distacco del protagonista Georg Dryman dalla DDR avverrà proprio quando, a seguito del suicidio di un suo amico regista ostracizzato dal regime, egli scoprirà come le statistiche ufficiali relative al tasso di suicidi fossero ferme al 1977. Un modo per tacere di un altro triste primato nazionale: la Germania dell’Est era superata infatti soltanto dall’Ungheria.
Una recente mostra dall’evocativo titolo “Dittatura di partito e vita quotidiana nella DDR”, allestita dal Deutsches Historisches Museum di Berlino ed approdata alla Wolfsoniana di Genova alla fine del 2008 ha raccontato le contraddizioni e la quotidianità di una tipica dittatura novecentesca: da una parte lo sviluppo industriale (su tutto, la mitica automobile Trabant) e l’enfasi posta sulla cultura, dall’altra l’ideologizzazione dell’educazione e il controllo rigidissimo sulla vita dei cittadini fin dall’infanzia. L’organizzazione dell’esistenza iniziava infatti a sei anni quando si era chiamati ad entrare nei “giovani pionieri”, riconoscibili per le uniformi e i fazzoletti rosso o blu. Al termine dell’ottava classe, grossomodo a 14 anni, ci si sottoponeva alla Jugendweihe, vera e propria cresima socialista che avrebbe dovuto facilitare l’iscrizione al partito.
Le giovani generazioni erano chiamate a contribuire ai successi patriottici e ad eccellere nella cultura, nella musica ed in particolar modo nello sport. Da quando, nel 1968, le due Germanie si presentarono separate ai giochi olimpici, la DDR compariva sempre ai vertici nel medagliere internazionale. A posteriori, si sarebbe scoperto che anche quello era in buona parte un bluff: molte di quelle vittorie erano state ottenute grazie ad una massiccia somministrazione di sostanze dopanti agli atleti.