Se Caruso avesse letto Marx riconoscerebbe le sue colpe morali e politiche
13 Agosto 2007
“Il problema e’ semplice: Treu e Biagi non sono gli assassini ma sono coloro che hanno fornito le leggi, alias le armi attraverso le quali i padroni e gli imprenditori senza scrupoli, che sono i veri assassini che pur di aumentare i profitti hanno abbassato la soglia di sicurezza delle condizioni di lavoro”. Così Francesco Caruso, deputato di Rifondazione comunista. Oggi è un uomo imbarazzante, impresentabile, ieri era il leader dei disobbedienti e, in quanto tale, degno di rispetto e filtro determinante per la strategia di Rc: essere il trait d’union tra le istituzioni e i movimenti. Ciò che dice oggi Caruso è il verbo inquinato dall’odio ideologico circolante in quei centri sociali, soprattutto del Nord e del Centro, dalla “Gramigna” alla rete dei no global di Firenze, di Bologna e di Milano: niente di nuovo sotto il sole.
Caruso parla, “vaneggia” dicono i soliti soloni della nostra sfiancata post-Prima Repubblica (la Seconda non è mai nata), con una coerenza ideologica da manuale: dov’erano ieri i rappresentanti delle istituzioni? Reazione pavloviana, ovvia, scontata e inefficace, questa, perché a Caruso va dedicata ben altra attenzione. Egli può parlare oggi e dire cose indecenti come queste perché, ieri, abbiamo assistito alla marcia dei compagni solidali con i presunti brigatisti; abbiamo visto emergere una filiera extra-parlamentare degna di nota; abbiamo perso il conto delle azioni dei brigatisti a partire dalla fine degli anni novanta del secolo scorso. Ma niente ha scalfito il muro di gomma della retorica istituzionale, salvo qualche voce isolata. Vi è stato chi ha denunciato la presenza di ex terroristi addirittura negli uffici ministeriali e in dipartimenti istituzionalmente rilevanti: ma sembrava parola vana, qualcuno l’ha definita addirittura “forcaiola” (l’ho sentito io stesso). Oggi scopriamo che il tempo sta giocando a favore della riorganizzazione delle centrali eversive dei brigatisti (non “sedicenti”) e che un deputato della Repubblica, che ieri è stato difeso dall’attuale Presidente della Camera, oggi imbarazzatissimo (in un “Porta a porta” ha definito “volgare” qualsiasi azzardo critico nei confronti della discutibilissima scelta di candidare cotanto soggetto di provata ideologia eversiva), possa dire cose così ideologicamente violente, sedendo – e continuerà ad occuparlo, lo scranno, ve lo assicuro – in Parlamento.
Certo che sì, è possibile perché è stato creato un clima da “anything goes”, cioè da “tutto è lecito”, dunque perché trattenere il giudizio? E poi: Toni Negri ha sempre detto queste cose; Virno le pensa, forse non le dice perché ha una cattedra all’università e ci tiene a mantenerla; i teorici delle moltitudini le dicono a ogni piè sospinto. Il lavoro è ancora il cuore dello scontro di classe. Finito l’operaismo è rimasto il nichilismo violento dei disobbedienti e dei suoi mentori, anche istituzionali. Ad esempio: siamo sicuri che aver sempre negato anche solo la paternità della legge sul mercato del lavoro a Marco Biagi abbia reso il clima più disteso? Siamo sicuri che aver usato la perifrasi “sì, però…”, in materia di riconoscimento del lavoro di Biagi e della crucialità del lavoro come condizione di nuova eversione proveniente dalle proprie fila, abbia favorito un clima di ripresa del lavoro politico e della dialettica genuinamente democratica (nonostante che Bertinotti, ad esempio, indugi sempre su questo tema)? Prova ne sia che Giordano, segretario di Rifondazione comunista, dopo le parole di Caruso ha affermato: “Le parole di Francesco Caruso sono culturalmente incompatibili con l’impostazione da sempre adottata dal Partito della rifondazione comunista. Sono parole in libertà di cui il solo responsabile è il deputato Caruso.
Resta invece aperta e ferma la battaglia politica e culturale di Rifondazione comunista contro la precarietà e contro la drammatica cronaca di morti annunciate e di incidenti sul lavoro”. L’ultima parte della sua affermazione – “resta invece…” – equivale al “sì, però”, è priva di nettezza nel giudizio, si rifugia nella denuncia moralistica e nella condanna morale: esattamente quanto oggi si usa fare in politica ogniqualvolta la realtà colpisca il cuore delle intelligenze: meglio che prevalga lo scandalo, piuttosto che il giudizio politico radicale, che mette la scure alla radice. Proprio Marx ha insegnato che essere radicali significa andare alla radice delle cose. In questo caso andare alla radice delle cose equivarrebbe all’ammissione di una colpa culturale e politica, prima ancora che morale. Troppo per chi pretende di rappresentare la “sinistra eterna” a detrimento proprio della realtà, cioè dei fatti. Che Lenin, invece, definiva “testardi”.