Se c’è una cosa che fa comodo ai regimi arabi è la Questione curda

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Se c’è una cosa che fa comodo ai regimi arabi è la Questione curda

28 Giugno 2011

Le rivolte scoppiate negli ultimi mesi in Siria hanno rappresentato non solo una minaccia per il regime degli Assad, ma anche  innescato una serie di difficoltà nei rapporti della Siria con il più importante dei suoi vicini, la Turchia del Primo ministro Erdogan. Fresco di nomina,avendo il suo partito (AKP) vinto per la terza volta le elezioni appena due settimane fa, Erdogan dovrà impegnarsi a gestire questa delicatissima situazione con Damasco, dove le proteste non sembrano assopirsi, né la violenza della repressione contro i manifestanti diminuire.

I rapporti tra i due Paesi sono molto importanti per gli equilibri del Medio Oriente, e sono soprattutto il frutto di anni e anni di sforzi e di trattative da entrambe le parti. Basti pensare che appena 13 anni fa la Turchia aveva minacciato un attacco militare contro il Paese confinante. Le dispute tra i due vicini sono di vecchia data: i due Paesi erano infatti  schierati su fronti opposti durante la Guerra Fredda, alle prese con problemi di confine dopo la caduta del sistema bipolare, in contrasto per la sovranità sulle acque del Tigri e dell’Eufrate, e per lo status della provincia di Hatay, turca fina dal 1939, ma sempre rivendicata dal popolo siriano.

Già nel ’98, la Siria decise di esercitare delle pressioni sull’avversario fomentando le azioni dei ribelli curdi, una delle minacce principali per la stabilità territoriale e politica della Repubblica turca. La Siria fu infatti accusata di sostenere i ribelli del PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan, considerato una vera organizzazione terroristica), e di proteggere il leader del movimento, Ocalan, attualmente in carcere. Alla fine la Siria si arrese, Ocalan fu catturato, e i rapporti tra i due Paesi migliorarono notevolmente. Quando l’AKP di Erdogan è salito per la prima volta al potere nel 2002, oltre a perseguire una politica di “zero problemi con i vicini” ha avviato una collaborazione intensa e fruttuosa con la Siria, cosa inimmaginabile fino a qualche anno prima.

Naturalmente i disordini che si sono registrati negli ultimi tempi in Siria non fanno altro che minare alla base questa collaborazione. Erdogan ha più volte sollecitato Assad ad attuare in fretta le riforme che la popolazione dei manifestanti chiede a gran voce, e soprattutto a contenere la violenza nelle attività di  repressione dei disordini. L’atteggiamento di Erdogan è stato tuttavia criticato da molti, perché considerato troppo accondiscendente, ed è facile immaginare che per la Turchia potrebbe alla lunga diventare rischioso sostenere l’amicizia con un governo che non sembra volersi minimamente piegare alle pressioni dei cittadini. Nonostante le opinioni dei leader degli altri Paesi, Erdogan sa bene di non poter calcare troppo la mano con Damasco: resta infatti la questione dei ribelli curdi che il Primo ministro non può assolutamente sottovalutare, soprattutto adesso che i rappresentanti del BPD (Partito curdo per la democrazia e la pace) in Parlamento sono passati da 26 a 36.

Il responso delle urne è stato festeggiato con gioia dai curdi che forse cominciano a credere davvero che qualcosa possa cambiare. La popolazione curda è di fatto priva di una patria, di una terra a cui fare riferimento. Si tratta di un popolo che per 3000 anni ha combattuto per formare uno stato indipendente, ma la possibilità di realizzare questo progetto rimane molto lontana. Sono disgregati in una regione chiamata Kurdistan che comprende parte di Iraq, Iran, Turchia, Siria. La popolazione curda, un tempo nomade, consta attualmente di più di 20 milioni di persone.

Dunque il problema relativo alla gestione di questa ampia porzione di gente che vive su una terra che non sente sua, è relativo non solo alla Turchia ma anche ai Paesi limitrofi. In Iraq per esempio, dove i curdi rappresentano il 12% della popolazione si sono verificate, e continuano a verificarsi anche adesso, le repressioni di più ampia portata. Ciò è da collegare tra le altre cose, alla maggiore organizzazione e maturità dei gruppi di dissidenti curdi iracheni rispetto a quelli di altri Paesi. Parliamo di numerosi episodi di deportazioni di massa, bombardamenti di villaggi e attacchi con armi chimiche, l’eredità cupa della dittatura di Saddam Hussein. Attualmente i curdi sono protetti dagli aerei delle forze statunitensi presenti sul territorio e dominano a stento le velleità secessioniste.

In Siria la situazione non è meno problematica. Si parla di una percentuale inferiore di curdi (appena il 5%) ma che comunque rappresenta la più grande minoranza etnica del Paese. Qui non è permessa la formazione di nessun partito politico, e gli attivisti per i diritti dei curdi vengono puntualmente maltrattati e perseguitati. Anche in Iran i curdi subiscono da sempre esecuzioni sommarie, torture e processi iniqui. La situazione è leggermente migliore in Afghanistan, dove molti dei curdi esiliati o scappati dalle violenze subite negli altri Paesi,si sono stabiliti nel corso del tempo, concentrandosi in modo particolare ad Herat e nella altre città della zona occidentale.

Il Kurdistan turco non si trova di certo in una condizione privilegiata, come Erdogan vorrebbe far credere. Anche qui la gente non gode dei diritti fondamentali, e nonostante la Turchia abbia approvato la Convenzione dell’Onu e quella del Consiglio europeo contro la tortura, Amnesty International ritiene che la tortura in questo Paese sia ancora diffusa, soprattutto nei confronti dei dissidenti politici curdi. La Turchia non  può a questo punto dare chissà quali lezioni ad Assad in merito a questioni di umanità nei confronti della popolazione in protesta.

Adesso, con 36 deputati  nel nuovo parlamento di Ankara, i curdi si presentano al tavolo delle trattative ma con nuove condizioni. Il PKK ha fatto sapere qualche giorno fa che è disposto a prolungare la tregua concessa in periodo elettorale, a patto che Ocalan abbia un ruolo di primo piano nella risoluzione della questione curda. Il BDP dal canto suo ha posto come condizione per trattare con il governo una serie di riconoscimenti costituzionali, amnistia per i membri del PKK, liberazione di Ocalan, e autonomia regionale del sud-est del Paese (zona a maggior concentrazione curda). Ora, tutto è nelle mani di Erdogan.