Se gli architetti fanno le star è tutta colpa della politica

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Se gli architetti fanno le star è tutta colpa della politica

18 Maggio 2008

Libro vivace e curioso questo dell’antropologo Franco La Cecla: che racconta come negli ultimi vent’anni gli architetti abbiano abdicato a conoscenze che dovrebbero essere essenziali nella progettazione dei loro edifici: la conoscenza del contesto nel quale i loro progetti si inseriranno, della storia e delle tradizioni del luogo, dell’uso che dei loro progetti verrà fatto una volta che saranno realizzati, dei mutamenti che la realizzazione dei progetti comporterà per l’ambiente geografico e umano in cui si inseriscono. I casi descritti dall’autore, e nei quali egli ha svolto un ruolo che ormai si va diffondendo – quello dell’osservatore critico dotato di competenze molteplici, oppure formato da più figure professionali – sarebbero divertenti se non fossero drammatici: edifici inadatti all’uso per il quale sono stati pensati, che incarnano il sacro genio dell’autore ma a spese di comodità, risparmio, funzionalità, e anche, in molti casi, intelligenza e buon senso. Agli architetti interessa solo esprimersi in modo creativo, e l’unica categoria che impiegano è quella estetica. Ma l’architettura è opera del tempo, delle abitudini, della storia, degli usi; scrive La Cecla: “Perché l’umanità ha saputo creare città per alcuni secoli, sapendo come fare, facendo una semplice opera di assemblage di elementi? Forse perché questi elementi avevano una forza unificatrice che andava al di là del singolo genio architettonico o della singola prepotenza del potere.”

Ci si chiederà che cosa una storica delle dottrine politiche come chi scrive possa trovare di interessante in un libro come questo, assai lontano dal proprio campo disciplinare. Risposta: la politica. Cerco di spiegarmi: il libro mi è capitato in mano per caso, mi ha incuriosita e appassionata, e l’ho letto fino in fondo. Ho osservato che in questo testo intelligente che ha per oggetto uno degli elementi più pubblici che esistano – la città, le case, gli edifici, il paesaggio urbano – manca proprio una riflessione sul governo della cosa pubblica: non viene tematizzata affatto la politica, se non nell’accenno finale al governo di Palermo e allo snaturamento della città in senso spettacolare. Questa presenza/assenza della politica mi ha lasciata perplessa. Ho pensato che sarebbe necessario analizzare non solo l’opera e la concezione del mestiere dei vari Calatrava e Gehry, Piano e Fuksas, primedonne dell’architettura, ma un altro elemento, fondamentale nella configurazione degli spazi in cui viviamo: il ruolo svolto dalle istuzioni locali e centrali che si occupano del bene pubblico. La Cecla punta tutto su una riforma cognitiva del mestiere di architetto, sostenendo che deve conoscere di più e meglio. E’ probabilmente molto giusto. Oltre a questo, però, sarebbe necessaria una riflessione sulla politica e sulle istituzioni che mostri i vezzi e la debolezza in questo settore.

Alla fine, chi decide come sarà il paesaggio urbano è proprio la politica, insieme ovviamente al mercato e alle sue congiunture. Le istituzioni demandano spesso in prima persona opere, idee, progetti: e scelgono il progetto migliore. Le istituzioni sono presenti anche in modo meno evidente ma ugualmente decisivo: ogni volta che fanno da mediatori in controversie che hanno per oggetto la forma o il mutamento o l’uso della città. E’ forse un po’ ingenuo e limitativo ridurre guai e guasti di questi anni a una concezione dell’architettura come ornamento che sarebbe penetrata nella formazione di questi professionisti fino a espungerne ogni altra.

Ciò che La Cecla osserva a proposito di Palermo vale, come afferma lui stesso, anche per altre città: nel testo ricorda Milano e Napoli. Non è – come sembrerebbe sulle prime – un fenomeno legato a una certa parte politica piuttosto che all’altra, ma si tratta di un fenomeno trasversale. Scrive: “Basta girare un po’ per il centro per rendersi conto che l’inquinamento è insostenibile (il limite di legge viene superato con valori doppi quasi ogni giorno), che l’immondizia si accumula, che la pirateria automobilistica non lascia tregua e che il degrado edilizio è direttamente proporzionale all’assenza di manutenzione ordinaria, mentre il traffico viene gestito da imprese private che si arricchiscono rimuovendo di tanto in tanto le auto di troppo.” Questa descrizione si attaglia perfettamente a molte altre città italiane, governate da giunte dei colori più diversi. Un esempio clamoroso è quello della città in cui vivo: Firenze. A un centro storico diventato vetrina (nel senso proprio del termine), preda dei turisti e delle banche, sporco e rumoroso, poco accogliente nei confronti di chiunque, fa riscontro uno sviluppo del tutto casuale o scellerato delle zone residenziali e delle periferie. In questo quadro, un ruolo notevole è rappresentato dagli edifici destinati a essere supermercati o ipermercati Coop. E’ noto che nell’Italia centrale le cooperative hanno svolto un ruolo di primo piano e acquisito un potere enorme: per questo, sono contigue alle istituzioni, alla politica che amministra e governa, che esse  condizionano e influenzano. Prendiamo l’ultimo supermercato Coop costruito in città e firmato da un architetto di grido come  Natalini: magniloquente, scomodo, assolato, brullo, vagamente nazista o sovietico nelle forme, è un esempio davvero notevole di pessimo intervento architettonico e urbanistico. Esiste anche, sempre a Firenze, una Coop a forma di missile sulla rampa di lancio, e una che è la fotocopia di uno stadio. Allo stesso Natalini autore del supermercato è stato affidato il riallestimento del Museo dell’Opera del Duomo: il precedente era un gioiello, un esempio di buon gusto davvero raro.

L’architetto superstar Natalini con il suo supermercato ha prodotto un edificio orribile, ma non è certo lui ad aver deciso di costruire lì un grande supermercato stravolgendo la vita di una zona residenziale, facendo aumentare un traffico già vivace, provocando la chiusura dei piccoli esercizi raggiungibili facilmente da bambini e anziani, modificando la viabilità delle strade circostanti. Non è certo lui ad aver stabilito volumi e destinazione, non è stato lui ad aver ripulito preventivamente la zona da un centro sociale (guadagnandosi così la riconoscenza del quartiere) per garantirsi con questo le mani libere e il consenso nel referendum sul nuovo supermercato che ha avuto luogo. Non è lui che – di fronte alle contestazioni – prima ha promesso un parco verde davanti all’edificio con una zona gioco per i bambini, e poi è riuscito a non realizzarla senza che nessuno ne chiedesse conto, senza che il quotidiano di sinistra della città dicesse una parola a questo proposito.

I critici come La Cecla delle star dell’architettura e dei loro disastri reali o annunciati dovrebbero tener conto del ruolo e della responsabilità che hanno avuto e hanno le istituzioni e la politica nella spettacolarizzazione dei centri storici, nel via libera dato a progetti scellerati, nello stravolgimento degli spazi urbani. Bisogna chiedersi a chi spetta giudicare e decidere sui progetti presentati per la costruzione di un edificio di grande impatto e il cui effetto sarà comunque, se non permanente, quantomeno duraturo e verrà a incidere sul paesaggio costruito, sulla vita degli abitanti preeesistenti, sullo spostamento dei cittadini in base al richiamo esercitato. Chi pianifica i grandi interventi urbani? Chi stabilisce la destinazione d’uso di un certo spazio? Chi concede o non concede un permesso di costruzione? Chi ha come compito specifico la cura del bene pubblico? Le archistar non saranno simpatiche, ma forse non sono le più colpevoli.

Franco la Cecla, Contro l’architettura, Torino, Bollati Boringhieri, 2008